09/03/25

David LaChapelle e Beat Streuli (Arles 1998)



Alla Chapelle du Méjan, personali di David LaChapelle e Beat Streuli. Grande contrasto, contrapposizione ma anche, in un certo modo, complementarità.

LaChapelle ha ritratto con programmatico irrealismo, ironia, senso del paradosso e indefessa ricerca di sorprendere e divertire (oltre che divertirsi), stucchevole alla lunga, solo “bella gente” (attrici, cantanti, artisti e paperoni vari), vestita e svestita benissimo, tra scenografie sempre molto elaborate e debordanti di oggetti sfiziosi e improbabili, ripresa da angolature barocche, da torcicollo, in spazi distorti e con colori innaturali, elettronici, squillanti, eccessivi, sempre molto, molto glamour, sempre perfettamente a puntino, senza perdere un colpo, attento prima di tutto a evitare di scivolare sotto le righe (oh, very nice!).

 


 

Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.

Streuli, invece, ha fotografato per le strade di Marsiglia praticamente tutti quelli che passavano, cioè solo gente comune (e chi altro vuoi che se ne vada in giro per le strade di Marsiglia?) e ne ha tratto diapositive che qui vengono proiettate su tre grandi schemi adiacenti, all’incirca di 4 metri di altezza per 6 ciascuno, illuminati in sequenze e con ritmi all’apparenza irregolari, così che le immagini possono essere una o due o tre contemporaneamente, spesso diverse, o uguali per i singoli soggetti o per i gruppi ritratti ma con piccole variazioni nelle posture o nell’inclinazione dei volti, raramente uguali in tutto e per tutto su tutti e tre gli schermi o sovrapposte sullo stesso schermo in dissolvenze che sembrano creare movimento o trasformare un volto nell’altro, sostituite con cadenze variabili ma sempre lasciando il tempo di guardare con sufficiente attenzione: gente comune, dicevo, comunemente vestita (con maglioncini, tute, giacche, cappottini, tailleurs, magliette e pantaloni di varia foggia per lo più da grandi magazzini o mercati rionali; con borse e borsoni, tracolle, zainetti, caschi, foulard, chador, berretti, cappelli sportivi con o senza visiera, portati dritti o di traverso o all’indietro; con o senza occhiali, anelli, trucco, tatuaggi e piercing vari; calzati di scarpe con tacchi alti e bassi di ogni formato, mocassini, polacchine, scarponcini, sneakers, sandali, stivaletti e stivali in similpelle o in tela, verniciati o grezzi, lisci o a lacci intrecciati, e una miriade di calzature di lontane origini sportive, di semplice tela, da basket o che sembrano piccole astronavi, con lucine nelle suole, oblò, ammortizzatori per il lancio e l’atterraggio...), ripresa ora a figura intera ora a mezzo busto, più spesso in primi e primissimi piani; sola, con amici, famigliari, colleghi, compagni e sodali, o semplicemente accomunata dallo spazio urbano, dall’istante; in compagnia dell’auto, della bici, della moto o del furgoncino; casalinghe, lavoratori, pensionati, studenti, turisti, sfaccendati: gente di ogni provenienza e condizione (bassa o medio-bassa perlopiù) e razza, ma senza che il tormentone multietnico sia cercato o avvertito; con espressioni, posture, smorfie (poche e solo accennate), sguardi e gesti mai vistosi, “naturali”, di chi si sta facendo i fatti suoi, o sta lavorando, facendo la spesa o cercando qualcosa, o anche niente, eppure sempre intensi, individuati, a ciascuno il suo e solo il suo, e tutta, sempre, gente bella, proprio per questo.

Ero solo nella sala, seduto su una sedia di plastica dietro i proiettori. Me ne sono rimasto lì una mezz’oretta a guardare e basta, pacifico, finché mi è venuto l’impulso di alzarmi e di mettermi a camminare in mezzo ai fasci di luce emanati dai proiettori, così, senza scopo, come se sperassi, però, di scoprire anche la mia immagine prendere forma sugli schermi come una di quelle che vedevo, di vedere la mia faccia confondersi con esse o per verificare anch’io com’ero in quel momento, tra tanta grazia, forse con addosso un po’ di grazia anch’io, diretta o riflessa poco importa; ma naturalmente sugli schermi, c’era solo la mia ombra, anche se talvolta duplice o triplice.

 

 

23/02/25

Abbandonarsi (abbozzo 11-6-24)



(Premessa: era stanco e teso ecc., lo è sempre più spesso, e allora gli è presa una voglia irresistibile di lasciar perdere, di rinunciare – a cosa poi? – e lasciarsi andare, abbandonarsi. Poi ha pensato:  )

 

Abbandonarsi non è poi così difficile. È come arrendersi: una tentazione sempre a portata di mano. Anche solo pensarci, a volte. È un piccolo sollievo. Una soddisfazione. Placida, molle, in genere, solo a volte drammatica, quasi mai davvero disperata. Sentirsi sicuro, compreso a priori, non giudicato, accolto senza dover fare niente per meritarlo. Poggiare la testa su una spalla, nel grembo materno. In un grembo qualunque. E stare lì per tutto il tempo che si vuole, senza dover chiedere né ringraziare. Senza pretendere, conquistare, combattere. Solo perché così è naturale, spontaneo, e cioè, almeno in questo caso, buono e giusto.
Lo chiamano così, ma, per quando gradevole, necessario a volte, non è un vero abbandono. Il vero abbandono è invece quello che sopraggiunge dopo avere opposto ogni possibile resistenza, come se ad attenderci, raggiunto, ci fosse una tortura. È quando si capiscono tutta la falsità (e la facilità: è lo stesso) che si incarna in ogni cosa o atto a cui si decide di resistere, e che la resistenza stessa rivela e denuncia come inammissibile. Quando finalmente si rinuncia a se stessi, e quindi a ogni compiaciuta, in fondo miserabile, soddisfazione. (Non fossimo uomini.  Miserabili, appunto).
È quello che capiscono i condannati e da ultimo lo stesso ufficiale addetto alla macchina in “Nella colonia penale”, man mano che l’esecuzione procede, che non a caso consiste nella scrittura. Sul suo processo. Che rivela mentre uccide. Che sevizia, dilania e dà pace. Che fa affiorare il ricordo anche di qualcosa che nemmeno si sa di aver commesso, o solo fatto (è lo stesso), e dimenticato, e dona la sua cancellazione, l’oblio.

Quando non è più espressione, volontà di dire e fare qualcosa. Quando non sei tu a volere, ma ti annulli, scompari, in ciò che è detto e fatto.

 

Sembra qualcosa di eroico: una lotta, una serie di dolorose vittorie verso la pace finale, l’apoteosi. Un risultato che probabilmente nemmeno si saprà di aver raggiunto. Una coppa da cui si berrà.
Ma che senso ha questa negazione? Questo oltrepassamento forse senza fine? Perché ricercarlo, quando tutto congiura, e alletta, affinché ce ne si distolga (lo si abbandoni)? Cosa si cerca? Cosa si spera di ottenere? Ma ricercare, e cercare di ottenere, non è già precludersi di raggiungere? Non è già interrompere il processo, affannarsi per vincerlo e di fatto soccombervi? Negarlo e abbandonarlo senza abbandono?
Se poi uno non ha nessuna fede in qualcosa di superiore, fosse solo (solo!) la verità, che senso ha? È forse l’ultima possibilità per chi non ha appunto nessuna fede? Per chi sa che c’è “infinita speranza, solo non per noi”?
È una forma di suicidio in vita? Un’esperienza della morte per chi non solo non rinuncia a vivere ma pensa (finge di credere) che essa in questo modo raggiunga il colmo? Che solo attraverso la sua negazione trovi la propria completezza (il proprio compimento)? Che solo lasciandosi alle spalle (e con quanta fatica!) ogni volontà e ricerca di senso, che è sempre e comunque parziale perché è nella parzialità e differenza che il senso si dà, si possa attingere un qualsiasi senso totale e definitivo?
Una specie di trascendenza immanente? Di immortalità al centro, al colmo, della mortalità?
Tutte cose che fanno paura. Tanto più che si sospetta sempre (si sa), che sono solo parole, pie illusioni. E quindi un’altra resistenza da opporre, un altro abbandono a cui non inchinarsi, un’altra scusa per distogliersi, per rinunciare e accontentarsi dei piccoli piaceri, e anche dei mediocri godimenti, della soddisfazione del dolce abbandono.
Ma non è cercare la grande soddisfazione, il grande abbandono, il miraggio del grande senso a muoverci, a indurre a non cedere, a far sentire ogni rallentamento e deviazione come la massima debolezza, una colpa, il peggior tradimento (verso chi?): è che non se ne può fare a meno. Che c’è una specie di dovere, di obbligo (verso chi? verso se stessi? il vero sé?, ma per favore!), una forza irresistibile che non sopraggiunge su (in) chi la prova, non lo investe da sopra, e nemmeno da dentro, ma è chi la prova; che ad essa, allora, non può sottrarsi, a meno di morire. Di essere davvero morto.

[…]


Sei bellissimo



Sono uscito dalla scuola per fumare. Seduto sulla panchina di fronte all’ingresso, al fresco sotto il vecchio ippocastano, mi metto a leggere. Dalla porta esce, senza che io me ne accorga, una (anziana) collega che, quando è ormai quasi fuori dal mio campo visivo, vicino al cancello, si ferma e mi dice: “Vorrei farti una foto”.

“Perché?”, chiedo.

“Sei bellissimo”, mi risponde.

“Capita, quando non si fa niente per esserlo”, replico, una volta tanto non per fare una battuta, ma come forma di pudore.

“Quando uno lo è dentro, o è felice di ciò che sta facendo, non si può fare a meno di notarlo. Sei proprio bellissimo”, conclude lei. E se ne va, con la sua faccia scavata, tutta tirata, ma buona.

Spengo la sigaretta, alzo gli occhi verso la chioma dell’ippocastano, che l’anno scorso a giugno era già tutta leopardata, bruciata da una malattia che ora sembra superata, tiro un lungo respiro e prendo la biro dal taschino. Mentre scrivo mi viene in mente che suo marito sta lottando da mesi contro un tumore e che mio suocero, a cui voglio bene, ne è stato colpito un mese fa, o poco più, e un altro mese gli resta, o anche meno. Il tenue compiacimento di cui avevo beneficiato, innocente perché non richiesto, bello perché gratuito, se ne è così andato. Resta un’altrettanto tenue tristezza, che, invece di trasformarsi in angoscia, si scioglie pian piano, restando come un retrogusto in ciò che riprendo a fare. Così sia.

 


17/02/25

Fuori tempo massimo


E’ fatto male e non gli sta bene, dice.
Forse non è colpa sua, ma certo non lo è nemmeno degli altri. E infatti lui non li incolpa. Non si accetta, tutto qui.
E perché mai dovrebbe farlo? Forse che accettandosi sarebbe fatto meglio? No, darebbe solo il suo assenso a qualcosa che è fatto male, e questo sarebbe un male ulteriore.
Forse che gli altri sono fatti meglio, gli chiedo?
E’ poco probabile, risponde, e comunque non sono fatti suoi e non cambia la sua situazione.
Solo gli stupidi se la prendono con gli altri, e lui non lo è fino a questo punto. Se lo fosse, forse le cose non si dice che andrebbero meglio, ma certo lui si accorgerebbe di meno che vanno male. E invece no, non ha nemmeno questa magra consolazione. Un vero peccato.
Ragion per cui non gli resta che prendersela solo con se stesso. Cosa che però contribuisce a renderlo ancora peggiore di quanto già non sia.
Che fare dunque? In apparenza ha due possibilità: o negare del tutto se stesso, decisione di cui è incapace per una debolezza che è parte del suo essere fatto male; o negare gli altri, azione ben più fattibile, la cui stessa facilità non è però che l’altra faccia dell’incapacità precedente, quindi l’ennesima conferma del suo essere fatto male.
Per negare gli altri basta poco: sapere che sono fatti male anche loro è più che sufficiente. Verificare che lo sono è ancora più facile: nessuna evidenza supera quella della loro imbecillità. Anche senza scomodare le loro presunte idee o il complesso delle loro azioni, una parola orecchiata, un semplice gesto, l’espressione che assumono quando credono che nessuno li noti, il poco che vogliono e il meno che li colma bastano e avanzano. L’idiozia ingravida l’aria più di qualsiasi batterio; non appena una bocca si socchiude, a cavallo del più flebile respiro ne fuoriesce una ventata capace di saturare gli spazi interstellari. Ammesso che già non lo siano.
Se fosse fatto meglio, questo dovrebbe indurlo al sorriso, come sto facendo io, dice fissandomi negli occhi, o lasciarlo indifferente (meglio): invece è fatto talmente male che prova insieme pena e insofferenza, entrambe in misura limitata però.
Non è possibile, si dice allora: alla lunga anche il troppo poco finisce per diventare troppo, e quando è troppo è troppo. Finalmente si incazza. (Passa subito, comunque.)
Davanti a me c’è solo la merdosa morte, conclude fuori tempo massimo.


12/02/25

E io, quando mi assolvo?


Quando riconsidero il mio comportamento in pubblico, spesso basta un dettaglio: un gesto, un’omissione, o più spesso una parola, una frase, una battuta (e magari proprio quelle che hanno riscosso successo, o sono sembrate particolarmente intelligenti, a chi non mi prestava, come di solito accade, che un’attenzione superficiale; mentre io che mi osservo meglio vi trovo mille lacune, o possibili contraddizioni e quindi ne vedo la fatale approssimazione), per farmi sprofondare nella vergogna, per emettere su me stesso un giudizio negativo inappellabile, una condanna che ribadisce e rafforza le miriadi che l’hanno preceduta. E’ una vergogna con cui ho dovuto imparare a convivere, per quanto ciò non la attutisca.

Invece quando vedo e sento la gente discutere, se così si può dire, in televisione (o anche in situazioni “reali”), o esibire una naturalezza che finge di ignorare gli altri e di fatto è tutta per loro, alla vergogna non resisto e cambio canale, o, se chi è con me insiste a guardare, mi alzo e me ne vado, vergognandomi anche per lui o lei o loro o tutti i presenti e assenti che di queste trasmissioni si interessano o sono appassionati.

Mi vergogno della loro stupidità e meschinità, che però è anche, in loro, la forma che prende quella fragilità e debolezza che non so accettare in me. Allora la pena che provavo lascia il posto alla compassione. E così li perdono nello stesso tempo in cui li giudico, mentre, di nuovo, non so perdonare me per il fatto di giudicarli, per quanto a volte sia opportuno farlo.

Opportuno, forse necessario, ma non per questo necessariamente giusto. E se non è necessariamente giusto, è giusto il giudizio su di me, la condanna.

Amen.

 

(primi anni 2000)