26/03/18

Tavoli - Antonio Moresco



Il tavolo è spoglio, nudo. E’ un tavolo su cui tutto può essere accaduto, o accadere. Un tavolo su cui qualcuno ha scritto o scriverà. O non farà nulla. Stenderà le braccia ad angolo acuto, e vi appoggerà il capo, come in certi disegni di Kafka. L’idea che vuol dare è nessuna idea. Niente. Un tavolo è un tavolo. Il piano di un tavolo fotografato dall’alto è un piano. Un rettangolo. Di legno. Un po’ usurato, ma lustro, ben tenuto. Un piano vuoto è un piano mai usato, o liberato apposta di ogni cosa. La sua dimensione è il ricordo, ciò che è stato senza quasi lasciare traccia, e l’attesa. Un’attesa senza determinazione. Assoluta. Che si può benissimo confondere col suo semplice essere. Con il puro stare.
La sedia che vi fuoriesce è meno spartana. Il suo schienale è imbottito, a suggerire che è di qualcuno che vi accomoda spesso. Che vi lavora, probabilmente, piegato in avanti, e per questo ogni tanto ha bisogno di appoggiarsi all’indietro, o di stirarsi, e per questo è opportuno che l’appoggio sia morbido. Non troppo: solo un po’. Il colore è rosa carico, o rosso. Non come il sangue. Un po’ meno. E’ un rosso a cui è stato sottratto ogni simbolismo. Esso pure denudato.
Pur essendo in una stanza di piccole dimensioni, quasi una cella monastica, tavolo e sedia non sono addossati, e neppure vicini, a una parete: stanno al centro del suo spazio. Lo occupano. Si stagliano davanti a una porta spalancata, da cui entra un fiotto di luce che invade tutto. Con un bagliore quasi di incendio. Sostano, come una sentinella, o un guardiano, davanti alla soglia. Quella, invisibile, oltre il margine alto dell’immagine, dove i battenti si uniscono agli stipiti. Quella che separa il dentro e il fuori. La fine e l’inizio, verrebbe da dire. Ma non è così. Perché è soprattutto il limite che si oltrepassa, o da cui si passa, verso un fuori che è sempre e comunque un dentro. Quello della casa. 


Tratto dalla rassegna di doppiozero.com del 2013, Tavoli, dedicata al tavolo di lavoro di artisti, scrittori, designers ecc., fotografati da Giovanna Silva

23/03/18

Nemesis sorride


C’era questa Nemesis, alla mostra di Palazzo reale, che, dicono, sarebbe una rappresentazione della giustizia distributiva, per la cui figura Dürer si sarebbe ispirato alla dea del destino come descritta dal Poliziano nel suo poema latino Manto, che unisce tratti della Nemesi greca con quelli della Fortuna romana. Bene. Si dicono anche altre cose, tutte utili a una corretta comprensione, che è opportuno sapere anche da parte di chi alla corretta comprensione è interessato fino a un certo punto. Ora che le so, posso dimenticarle. La corretta comprensione serve a questo, a essere archiviata. Conosciuta, usata e messa da parte, sempre pronta per essere ripresa all’occorrenza. E solo dopo, dimenticata. Se no ti ricade tra capo e collo, come giusta nemesi.
Quando mi sono trovato davanti questa incisione, la prima cosa che ho notato, archiviato illico et immediate il corpo poco aggraziato, è stato che la figura sembra che sorrida. Lievemente, con un sorriso appena accennato, quasi impercettibile, ma che si precisa in un sorrisetto compiaciuto non appena lo si guarda con un po’ di attenzione. Sì, Nemesi sorride. C’è un’indubbia soddisfazione nel calare dall’alto, con tutto il proprio peso, massiccio e sgraziato, a portare nel mondo la giustizia, o un suo simulacro. Io la nemesi l’ho sempre intesa più come vendetta che come giustizia. È vero, fa giustizia, ma è quella che non va troppo per il sottile, sempre violenta, che alcuni, gli dei per esempio o qualche loro rappresentante più o meno legale, pongono in atto laddove la legge non c’è, o non ha funzionato. La invochiamo tutti, qualche volta, anche se non sempre apertamente. Perché sembra meschino, e lo è quasi sempre, e gente sensibile come noi se ne vergogna.
C’è da chiedersi se è vero che la Nemesi riequilibra davvero. Se non crea nuovi squilibri che si manifestano non appena lei se ne va con quella sua aria vanesia. Lei è trascendente, non sta nelle cose, nel mondo, lo guarda dall’alto, separata dalla valle sottostante dal ripiegamento non delle nubi e del cielo ma come dell’orlo stropicciato di un tessuto, una parte del quale va a confondersi con il lembo inferiore di quello che, non si capisce perché dal momento che non ha nessun’altra funzione se non quella di svolazzare, che le pende dalla spalla sinistra. Forse perché, nonostante lei sia al momento immobile, lassù tira sempre un vento forte, difficile da respirare se non sei un dio. 


Nel villaggio deserto su cui incombe, a parte una figurina sul ponte di sinistra, e un paio di segni che potrebbero alludere a esseri umani nello spiazzo presso le cataste di legno e sulla stradina alla sua destra, sembra che nessuno si accorga della sua presenza. Non sospettano. Non temono. O forse sì, e si sono chiusi tutti in casa perché tutti qualcosa da temere, qualche torto da raddrizzare sanno di averlo commesso? O sono spariti tutti perché se si fa veramente giustizia non resta più nessuno?
Lei sorregge con la mano sinistra le briglie con cui dovrebbe governare il destino, che però qui non si vede, come non si vede mai da nessuna parte, se non nell’illusione di chi guarda le cose a libro chiuso. Ammesso poi che il destino si lasci imbrigliare. Ad ogni buon conto, lei tiene le briglie saldamente come se da un momento all’altro dovesse usarle. Anche lei si illude, mi sa. Con la destra invece, direi elegantemente se la mano non fosse tutt’altro che delicata, come quelle delle sante che reggono l’insegna del loro martirio, piatti con occhi e seni o altri oggetti che sembrano librarsi per aria da soli, senza peso, tiene un calice prezioso chiuso da un coperchio, in cui immagino ci sia la medicina che sta per somministrare ai suoi pazienti.
Il suo corpo, ora posso tornare a guardalo, è massiccio, con due gambone in cui spiccano cosce atletiche da cui si dipartono, sul retro, sotto i fianchi bene in carne, due natiche tonde, propriamente semisferiche, sodissime, ma piccole in proporzione, e sopra, davanti, un ventre altrettanto sporgente, più gonfio che sodo tuttavia. Pare che nel costruire questo corpo, il grande artista abbia inteso applicare, da quel perfetto umanista che era diventato, il canone di Vitruvio, in un modo però che non ho riscontrato altrove e che poco ha a che fare con altri nudi da lui prodotti, anche se a volte una tendenza alla muscolosità e all’abbondanza in certe forme femminili è possibile rinvenirla, e che qui la scelta di questo corpo monumentale, massiccio e temibile, voglia alludere alla “gravità” del suo dominio, alla minaccia sempre incombente del intervento, per nulla attraente. Come il suo volto del resto, che si staglia su quello che sembrerebbe un doppio mento, con un occhio perfetto sotto tutti gli aspetti, per carità, ma che a me sembra un po’ da gallina, sornione eppure vuoto, forse condizionato dall’espressione della bocca appena corrucciata, non da un broncio, ma da una sicumera che a uno verrebbe voglia di tirargli una sberla, se non fosse costituzionalmente per la non violenza (se non temesse per la sicura ritorsione).
Sorride sicura, lei, sì. I piedi però non poggiano saldamente sulla sfera, che rappresenta l’instabilità del mondo mondo, della vita traballante dei poveri mortali. Il piede sinistro forse sì, ma appena appena, mentre quello destro sembra lambire il versante esterno della sfera solo con il tallone, tanto che basterebbe il minimo movimento a far cadere la vendicatrice con effetti ridicoli per lo spettatore ma devastanti sul mondo sottostante.
Forse allora Dürer vuole farci riflettere che se la Nemesi riporta equilibrio tra le genti, gli eventi e le cose, lei, quanto a sé, in equilibrio lei non è.
Ha le ali, però.                       






17/03/18

Si comincia con una verità


Piove, non ho voglia di uscire, ho smesso di leggere i saggi critici di Deleuze perché capisco quasi ogni frase singolarmente presa ma non cosa significano a gruppi, anche di due o tre messe insieme. E allora sono andato a riprendere qualcosa e ho ritrovato questo, con la foto di mio nipote Simone che guarda sotto una "scultura" mobile, e, in fondo al testo, un'altra, con il sottoscritto che scruta un cielo di chiavi, senza trovarne una sola che funzioni.
Mi sa che passo a un altro libro, per esempio "Il nervo ottico" di Maria Gainza.
Buona ora in cui vi trovate mentre leggerete.




E poi invece, in un momento che la pioggia si è presa una pausa, sono uscito lo stesso, e mentre stavo per attraversare una delle vie deserte del mio quartiere mi si accosta una macchina, che al momento ho pensato che era meglio se mi fermavo, prima che mi tirasse sotto, e invece la macchina si ferma lei in mezzo alla strada, scende un finestrino e dentro vedo un mio amico che mi chiede come sto, e dopo i soliti convenevoli mi fa: "Sai, è un sacco che voglio uscire da facebook, ma alla fine ci resto sempre perché ci sei tu e le cose che scrivi".
Accidenti, penso, ci mancava anche questa responsabilità!, come se la mia coscienza non fosse già gravata da una montagna di colpe reali e immaginarie che basterebbero per una serie completa di rinascite, dio non voglia. Allora lo ringrazio e gli dico: "Pensa che ho la stessa tentazione anch'io, ogni giorno si può dire, ma rinuncio sempre perché so che almeno tu mi segui regolarmente e non sopporterei di lasciarti a bocca asciutta e di perdere l'unico lettore sicuro che ho", giusto per raddrizzare l'asse del mondo e fare un po' di equilibrio. Per un po'. Fino alla grazia successiva, che chissà quando arriverà.

(Non è proprio così, ma poi sai, Piersandro, si comincia con la verità, si continua con una menzogna, e a volte si arriva a un'altra verità.)

05/03/18

Soldati morti 40'anni fa. | Il ritorno a valle (Una variante)



Quando siamo arrivati a valle era di nuovo buio, squarciato solo dalla luce giallastra dei fari delle jeep degli ufficiali e degli autocarri schierati ai fianchi della strada, nelle spianate e negli spiazzi accosto, nei cui fasci sfarfallava la neve che ancora cadeva o che il vento portava qua e là scuotendo i rami degli alberi vicini o spazzolando le rocce scoscese. Sulle jeep se ne stavano al riparo solo gli autisti, mentre i pezzi grossi erano scesi e facevano il saluto militare, impettiti, sull’attenti, alla nostra colonna che sbucava dal bosco e imboccava la stradina più larga di fondovalle. Noi eravamo distrutti dalla fatica e da tanta rabbia che, non ci fosse stato il vento, sarebbe bastata da sola a smuovere l’aria e a fare turbinare la neve tutto attorno. Un estraneo ci avrebbe visto una di quelle scene epiche hollywoodiane dove i sopravvissuti eroici ritornano in patria accolti da tutti gli onori, accompagnati da una musica struggente; invece io, allora, e anche ora nel ricordo, vedo solo lo squallore dell’inutilità di tanta morte e della prosopopea e idiozia di quella gente decorata e gallonata, per cui quella era solo una parata, l’occasione di qualche posa monumentale, della cerimonia del “rendere onore” che certo non era una farsa solo per chi lo riceveva ma anche per chi lo rendeva, ammesso che gli restasse un briciolo di intelligenza. Passandogli accanto, ma non proprio accanto, perché non si erano spinti fino ai bordi del sentiero, e tuttavia ancora a portata di voce, molti di noi hanno recuperato un po’ di forze nervose e quella voglia di parlare che, una volta usciti dalla trappola dell’alta valle sommersa dalla neve, ci aveva abbandonato, perché non c’era più nulla da dire, ogni parola, anche la più compassionevole e saggia, sarebbe stato solo una bestemmia come quelle, vere, che avevano costituito l’unico discorso lassù, e hanno risposto al saluto con una sfilza tale di ingiurie e maledizioni che una sola sarebbe bastata per finire sotto processo, in quel tempo in cui dire qualcosa contro l’autorità, quella militare soprattutto, e dirgliela in faccia, costituiva un grave reato, come ancora oggi del resto, che i miserabili benpensanti decerebrati hanno rialzato la cresta amplificati da tutti gli strumenti in possesso di coloro che li stanno sfruttando non certo a loro beneficio, oggi che insultare tutto e tutti è l’unica cosa che la maggior parte della gente sa fare, ridotta a puro fiele e bile e rancore scagliati sempre nella direzione sbagliata. Restavano, i salutatori, come statue sorde nella neve, alla luce dei fari, sperando che qualcuno li fotografasse o filmasse, per avere un ricordo di un momento glorioso, dopo averne prudentemente dimenticato l’occasione. Noi non avevamo più neanche la saliva per sputare.

04/03/18

Tiziano, Apollo scortica Marsia (ovvero: il supplizio, la punizione, di Marsia)




a Lapin Kelinci


Un amico ha postato su facebook, il famoso quadro di Tiziano La punizione di Marsia, capovolto. Probabilmente un errore nel caricare l’immagine, ho pensato d’acchito. Ma poi, siccome questo amico è molto intelligente e molto mi piace ciò che fa e scrive, ho pensato all’eventualità che il capovolgimento fosse voluto. E subito dopo, che anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso: ciò che mi si dà a vedere ora è questa immagine girata così, con Marsia rimesso dritto, anche se resta legato con i piedi, in basso, all’albero, ma come se poggiasse, o fosse incatenato, a un suolo boschivo, ricoperto di vegetazione, cespugli o rami caduti, mentre ad essere a testa in giù è Apollo, che però non rinuncia, nemmeno in questa scomoda posizione, a scuoiare, si direbbe con metodica e soddisfatta pazienza, il suo presuntuoso sfidante, sconfitto. Raddrizzato in questo modo, però, Marsia riacquista nobiltà. La sua boria derivava dalla provata maestria nella sua arte che, perseguita forse più per la (vana)gloria che per il guadagno, gli ha portato solo dolore. Nel quadro è ancora vivo, come ogni martire o delinquente nel racconto di ogni scorticamento degno di questo nome: l’operazione va fatta con perizia e una certa delicatezza, se si vuole che il suppliziato soffra a lungo, senza morire, e Apollo lo sta facendo con tutta la serenità olimpica che il suo pedigree gli conferisce. Si curva sul poveraccio e lavora di fino, con vicino un satiro che ha pronto un secchio d’acqua, non si sa se per inumidire le zone incise e pulirle dal sangue che cola a terra lappato da un cagnolino (aggiunto dagli allievi di Tiziano a posteriori, dicono gli studiosi), o per altro soccorso, a Apollo o al suo simile. La sua espressione è indecifrabile, come si conviene a volti ferini, ai quali al massimo si può attribuire stolidità o, nel caso dei satiri, incontrollata, furiosa libidine. Il segno di questa tirannia istintuale, che nel disegno di Giulio Romano a cui Tiziano si è ispirato era in bella evidenza, è qui nascosto dalla figura pensierosa di re Mida, che ha i tratti di Tiziano vecchio come era quando stava dipingendo il quadro che infine ha dovuto lasciare incompiuto, e, in Marsia, dal modo in cui le gambe (o zampe, per la precisione), sono legate ai rami e dalla prospettiva scelta apposta per coprire le vergogne (o l’orgoglio: un altro dopo quello dell’hybris della sfida al dio, se non lo stesso declinato in un altro modo).
Senza la protezione della pelle, ogni millimetro della superficie del corpo è sensibile a tutto ciò che la avvolge, e questa sensibilità è dolorosa. Il minimo contatto con il mondo è dolore intollerabile.
Se capovolgiamo i rapporti temporali e di causa-effetto come è capovolta l’immagine, la sensibilità e il dolore sono la conseguenza dell’arte, maggiori quanto maggiore è stata la tensione verso la maestria, il costo di un’ambizione verso una perfezione tale da volersi eguagliare a quella divina, e non la sua premessa, come sostengono in molti secondo una vulgata tutto sommato recente: che l’opera cioè può nascere solo da dolore e privazioni, come se ogni sensazione e condizione positiva fossero di impedimento alla creazione, foriere solo, da questo punto di vista, di stolida impotenza o, peggio, di banale superficialità.
Il peccato di Marsia è la superbia, ed è per questo che è stato letto come un’immagine del peccato originale dal cristianesimo, che ha questo di bello, che recupera più o meno tutto, invece di distruggere (ha fatto e fa anche quello, sia chiaro: perché una religione dominante non si fa mancare niente) ingloba più che può e lo trasforma in altri racconti che fanno quadrare più o meno tutto. Una delle ragioni del suo fascino, anche presso coloro che non ci credono e non sono obnubilati da altre ortodossie, è appunto questo. Per me, obnubilato da un sacco di ubbie ma non da ortodossie, lo è. Come Adamo, anche lui ha voluto essere dio, e non un suo strumento: uno strumento che questi fa risuonare tanto meglio quanto più si arrende docile al suo volere, rinunciando a se stesso, alla resistenza che l’individualità sempre oppone a ciò che viene dall’esterno, o dal profondo (dall’insondabile insomma), invece di accoglierlo e di esserne, letteralmente e entusiasticamente, come indica l’etimo stesso di entusiasmo, posseduto. Invasato. Dionisiacamente squassato. Non a caso Atena aveva gettato il flauto che da poco aveva inventato vedendo le proprie guance gonfie specchiate nell’acqua, come Narciso, mentre suonava. Cosa che per un satiro, figura dionisiaca già di per sé, non fa alcuna differenza. Brutto per brutto… Invece per Apollo e i suoi seguaci, come il damerino alla sua sinistra che alcuni interpretano come Orfeo, suonare la cetra non comporta brutture e non mette a tacere la voce, che anzi può ricavare beneficio dalla sua dolce melodia. Controllo, e che diamine! Per Apollo suonare è una performance. Per il satiro qualcosa di più, ci porta dentro il corpo, lui, lascia che gli istinti si scatenino nel baccanale. Suonare e insieme godere: non sia mai! Che sia punito allora! La felicità dell’opera è degli altri, a chi la cerca viene solo dolore, prima durante e dopo si direbbe. A chi è triste si aggiunge solo altra tristezza, a chi è sereno ulteriore serenità, al gioioso maggiore gioia.
Si può però vedere la cosa altrimenti, in questo quadro terroso, insanguinato, in cui si fronteggiano non solo due contendenti, non solo due condizioni: la divina e l’umana, ma anche due posture e due direzioni.
Perché poi, guardando da un’altra direzione, si possono fare altre ipotesi. Invece di biasimare, cosa oggi alquanto facile, il dio, potremmo attribuirgli, come un dio in fondo merita se tale l’uomo lo ha fatto, una veggenza superiore: in questo senso allora non scuoierebbe Marsia per punirlo, ma per farlo suonare ancora meglio, perché a suonare non sia solo lo strumento ma davvero tutto il corpo, tutta la sua sensibilità esposta, affiorata in superficie, tradotta verso l’esterno. Perché se non suona tutto il corpo, nemmeno lo strumento suona bene. Ma per suonare bene il corpo deve fondersi con lo strumento, e non usarlo (come ha capito Glenn Gould). Deve soffrire fino a dimenticarsi di sé. Fino a dimenticarsi del sé. Apollo allora non starebbe infliggendo una punizione, ma elargendo una lezione, che come ogni vera lezione non va senza sofferenza. Anche se il dio, che è tutto meno che un compassionevole moralista, un po’ sta esagerando. Speriamo si fermi prima. Ma non si ferma. Marsia muore, anche se il suo sangue e le lacrime degli astanti e degli amici satiri che lo piangono vanno poi a formare il fiume che porta il suo nome, perché sangue e lacrime vanno riscattate, producono sempre qualcosa, si vuole pensare, e non si perdono a terra per nulla, sterili e immedicate.
Ma il quadro rovesciato mostra anche un’altra cosa. Marsia non sta solo soffrendo, a ben guardare la sua figura capovolta vediamo la parte nascosta del dolore, che la visione diritta impediva non solo di vedere, ma anche di pensare: capovolta, la postura di Marsia è quella di qualcuno che sta danzando. Il rovescio del dolore, non esterno, ma insito nel dolore stesso, è la danza. La gioia. Una diversa gioia forse, ma pur sempre una gioia. La danza. Il corpo glorioso. Come quello che si dice ottengano in premio delle loro sofferenze, tutti i martiri.
Alla fine potremo anche riportare diritto il quadro, ma non sarà più, per me, solo la giusta direzione ripristinata, ma anche il rovescio del rovescio, il capovolgimento del capovolgimento e l’invito a leggere anche dagli altri due lati, da destra e da sinistra, e non solo secondo lo sguardo centrato. Secondo sguardi scentrati dunque. Che lascio, per stavolta, a chi legge.