25/02/18

Jurij Tynjanov, Il sottotenente Summenzionato (1986)



Il linguaggio non ama chi lo ama, ama chi lo serve, mentre si rivolta contro che pretende di dominarlo e limitarlo. Altro non gli importa che di vedere la propria potenza amplificata al massimo grado; per questo sospetto che il suo vero grande amore, clandestino perché inconfessabile, lungi dal riversarlo sui poeti, lo riservi invece alla burocrazia.
Ma se la burocrazia incarna la vocazione segreta del linguaggio è solo perché, sospetto ancora, il linguaggio è la vocazione inconscia della burocrazia, e precisamente il linguaggio sotto forma di romanzo. Come spiegare altrimenti il suo fervore nel creare destini?
Che molti romanzieri provengano poi dalle sue fila e come da essa cooptati, non è che un corollario minore, non certo una riprova decisiva. ben più decisivi sono infatti i lapsus e le sbadataggini, che rivelano, al pari di ogni inconscio, anche quello della burocrazia. Può capitare allora, per esempio, che una svista nella stesura di un rapporto dichiari morto un certo tenente Sinjuchaev vivo e vegeto, e che viceversa un errore tipografico ne consegni alla vita un altro inesistente, il tenente Sunnominato.
Tanto basta per inaugurare la traiettoria di due destini che porteranno il primo a scomparire “senza lasciare traccia (...) come se non fosse mai esistito”, dopo aver vagato per tutta la Russia come un fantasma destituito di ogni realtà anche ai propri occhi; il secondo a morire “dopo aver realizzato tutto ciò che è possibile realizzare nella vita ed aver avuto a sazietà: gioventù e amorose avventure, castigo corporale e deportazione, anni di servizio e una famiglia, il favore dell’imperatore e l’invidia dei cortigiani”, fantasma più reale dei vivi.
Tanto basta, soprattutto laddove l’alleanza di linguaggio e burocrazia già regna, sia pure dissimulata sotto l’immagine di un autocrate (lo zar Paolo I), che di fatto del suo dominio è insieme l’effetto, lo strumento e una delle vittime.
Che l’autore dei destini dei tenenti Sinijuchaev e Summenzionato sia lo zar è solo un’impressione: infatti egli è all’oscuro di ciò che continua a provocare. Non solo, ma anche questo, come tutti i suoi altri gesti che dovrebbero indicare l’assoluta autonomia della sua persona e del suo potere, ne tradisce il realtà la vera natura, che è quella di un semplice effetto: come funzione egli produce anche o soprattutto terrore, ma come persona non è altro che una vittima, risibile per di più.
Ogni sua azione è infatti reazione; invece di improntare di sé ciò che lo attornia ne viene improntato, tanto che agiscono su di lui persino le decorazioni del suo palazzo; invece di incutere paura e rispetto è in preda a paure e sospetti talmente generalizzati da finire per fidarsi solo del tenente Summenzionato, che non conosce e non ha mai visto naturalmente.
Ma soprattutto, come si diceva, egli è vittima e effetto di quelli che in genere si crede siano gli strumenti privilegiati del suo potere: del linguaggio, del quale egli cerca di dominare ogni sfumatura proprio perché ne ha paura e sente che gli sfugge da ogni lato e a ogni livello (a scatenare la vicenda è un semplice grido di aiuto lanciato da un ignoto sotto la sua finestra); della burocrazia che lo obbliga a formalismi sempre più esasperati e a impennate inconsulte di reazione per imporsi su ciò che pone in dubbio persino i confini elementari della sua esistenza (di chi è veramente figlio? come è veramente morto? “Morì – secondo il comunicato ufficiale – per un colpo apoplettico...”).
Alla fine giunge difficile continuare a credere alla favola che la burocrazia serva il potere e che il potere possa limitare il linguaggio, favola molto funzionale peraltro. L’uno e l’altra, tranquilli, gli lasciano questa illusione, lanciando ogni tanto segnali che rivelano l’illusione per quella che è, pura imbecillità. Un’imbecillità che finisce per coinvolgere tutti, anche coloro che apparentemente ne approfittano, un’imbecillità che non rende certo più nobile il fatto che accompagni tragedie, e che anzi si accompagna troppo spesso al terrore per esserne solo un risvolto marginale.
E’ una storia vera, questa dei tenenti e dello zar? Pare proprio di sì, ma come si suol dire non lo sarebbe meno se fosse inventata. E ancor più vera deve essere apparsa a molti dei russi che la lessero nei primi anno trenta, quando fu pubblicata, e ancor più ai loro figli nei decenni successivi. L’ha scritta, con straordinaria eleganza, in tono parodistico e grottesco ma non per questo meno terribile, estremizzandone gli effetti paradossali ma insieme ricreando con precisione il clima di fine Settecento, Jurij Tynyanov (1894-1943), il grande formalista noto in Italia per i suoi scritti critici, ma ancor più in patria come autore di romanzi storici.
Tynjanov la narra nel racconto Il sottotenente Summenzionato, che dà il titolo a un volumetto edito da Sellerio trad. di P. Oliva, pref. di V. Zaslavsky) che ne comprende un secondo di pari valore, imperniato sulla figura di un altro zar, Nicola I. Il lettore ne sarà per più di un verso sorpreso.



Jurij Tynjanov, Il sottotenente Summenzionato, Sellerio, Palermo, 1986, p. 163, £ 5.000

20/02/18

Libri e strade (e librerie, in mezzo)





(Un amico mi invita a scrivere una cosa per un importante giornale. Faccio il renitente. Strano!)

–    Sai, fa girare il tuo nome, può essere utile per i tuoi libri…
–    Quali libri? Nessuno è arrivato in libreria e un libro che non ha visto una libreria non esiste. Se qualcuno c’è arrivato, è stato perché aveva sbagliato strada e, non appena lo hanno scoperto su uno scaffale, gliel’hanno subito fatto notare.
“E quale sarebbe la mia strada?”, ha chiesto il tapino.
“Non so,” gli hanno risposto. “Di sicuro non questa.”
Eh sì, questa no di sicuro…
Qual è la loro strada, allora?
Nessuna.
Non c’è strada.
Non c‘è strada e non c’è libro.

(- E allora?
 – Eh, allora…!)

14/02/18

Heinrich Zimmer, Il re e il cadavere – storie della vittoria dell’anima sul male (1983)






Nessuna epoca, pare, è stata lontana dal mito quanto la nostra, e nessuna se ne è mai tanto occupata e ne ha sentito altrettanta fame. O forse siamo circondati da miti che ci sembrano, alla nostra distanza ravvicinata, tanto banali o superficiali che proviamo il bisogno di rivolgerci a quelli del passato per consolarci, riflettere o divertirci (sospinti anche, alquanto sospettosamente, da tutti i mass-media).

Non è solo il ricorso al passato saggio e favoloso come antidoto all’invivibile presente, né una problematica smania delle origini, quanto anche, o piuttosto, la necessità di schemi interpretativi della realtà ampi e possibilmente profondi senza essere astrusi, ad indurci alla loro ricerca. “Noi siamo ostacolati da ogni parte da soluzioni insufficienti ai grandi interrogativi della vita”, afferma l’illustre indologo Heinrich Zimmer (1890-1943) nel suo capolavoro postumo Il re e il cadavere – Storie della vittoria dell’anima sul male, recentemente tradotto per Adelphi da Fabrizia Baldissera, e pensiamo che forse il mito, sedimentazione delle più profonde esperienze di chi ci ha preceduto, queste soluzioni possa se non fornircele, almeno indicarle.

Zimmer ne era anzi convinto. Solo che, diceva, spetta a noi scoprirle, facendo rivivere i simboli nei miti contenuti. Anche in questi infatti, come in tutte le storie, la “facoltà di germinare è perenne, attende solo d’essere stimolata”. Ma solo saranno capaci di farlo “coloro che si dilettano di simboli, amano conversare con essi e amano vivere tenendoli continuamente presenti”, lasciandosene permeare e rispondendo alle rivelazioni che “dalle profondità della nostra immaginazione” essi suscitano: non gli scienziati cioè, con la loro pretesa di giungere a verità definitive e con le loro fredde dissezioni, ma i dilettanti, umili e disponibili, alla cui schiera Zimmer si onora di appartenere.

I miti e le storie che Zimmer racconta e insieme interpreta nel suo libro, con l’amore e il piacere del dilettante pur non rinunciando alla sua sapienza di erudito, appartengono a tempi e culture differenti ma sono collegati, oltre che dalla tematica comune, da una sottile e fitta rete di affinità, ripercussioni e parentele che lo studioso districa con fascinosa sagacia e riconduce, quasi senza darlo a vedere, a comuni archetipi umani. Passiamo così dalla favola araba delle Babbucce di Abu Kasem al parallelo tra l’eroe celtico Conneda  e il santo cristiano Giovanni Crisostomo, da Quattro storie dal ciclo di Re Artù  alla “storia-chiave di questa raccolta”, quella del re indù che risponde agli enigmi postigli da un cadavere e con il suo aiuto sventa una terribile magia, e a quattro episodi di uno stupendo mito indù, qui tradotto per la prima volta, che narra della creazione involontaria e delle passioni di Brahma, Visnu e Siva, e vediamo ogni racconto, per quanto compiuto e autonomo, richiamare questo o quell’aspetto degli altri o intravediamo caratteri comuni in personaggi all’apparenza lontanissimi.

E’ come se Zimmer, oltre a illuminarci sulle sotterranee e celesti consanguineità che il mondo dei racconti intreccia, volesse farci capire che, se le vie per raggiungerla possono in superficie variare, in fondo però si assomigliano tutte, perché una è la saggezza a cui tendono. Infatti la “vittoria dell’anima sul male” del sottotitolo assume caratteristiche ovunque comuni e nemmeno tanto varie: la riconquista della innata ma poi perduta fusione tra la personalità cosciente e quella inconscia, tra la sfera umana e quella delle forze primigenie, la redenzione conseguita attraverso il riscatto del passato, l’integrazione del male e la presa di coscienza della sua essenzialità, al pari di quella dell’ignoranza, sotto il magistero della morte, onde “accordarsi col vasto ritmo dell’universo e muoversi con esso”.

Certo varrebbe la pena di soffermarsi maggiormente sulle storie, sulla diversità che comunque si manifesta dei personaggi e degli accidenti che incontrano sulle loro vie, oppure sulla ricchezza delle analisi che Zimmer ne offre prodigando con tocco leggero la sua grande erudizione, ma, lasciando intatto il piacere che ne potrà trarre il lettore, è opportuno evidenziare una delle implicazioni fondamentali di questo libro.

Dato infatti che “le risposte agli enigmi dell’esistenza che queste fiabe recano in sé – che ne siamo coscienti o no – plasmano tuttora la nostra vita”, giunte a noi per vie misteriose, Zimmer ne conclude che possiamo “utilizzare il loro insegnamento nel mondo di ogni giorno”, che sono cioè valide oggi come lo erano in passato e come lo sono sempre state.

Non tutti però saranno disposti a condividere questo discorso, che comporta la sostanziale immobilità dell’animo umano nei suoi rapporti con la vita e la realtà, le cui modificazioni non sarebbero allora che un semplice movimento di superficie; tanto più che Zimmer stesso finisce  per contraddirsi tramite esso, recuperando quelle verità ultime che invece dovrebbero essere estranee, a suo dire, alla lettura del dilettante. Questo tuttavia, più che malafede o ingenuità, non è che la conseguenza propria del suo metodo, che pure non si vorrebbe tale, e in generale della lettura simbolica, che è sempre condotta a ipotizzare il significato, e un significato sempre trascendente e eterno, a discapito della lettera del testo.

Non a caso Zimmer tende a prendere in considerazione, di preferenza, le articolazioni generali dei racconti, occupandosi spesso dei particolari solo quando si inseriscono con precisione nel suo quadro interpretativo, il quale appare così predeterminato, come se il dilettante si muovesse inconsapevole in un sistema che precede il suo vagabondaggio tra i simboli. Capita così a volte che le risposte siano già contenute nelle domande in qualità di presupposti sottaciuti o inconsapevoli, i quali non per nulla si intrufolano anche altrove come dati di fatto indiscutibili e originari, mentre ovviamente sono già ideologizzati. Il libro quindi, anche laddove teoricamente lascia aperte, e anzi raccomanda, la possibilità di altre interpretazioni (“l’abbondanza attinge dall’abbondanza, eppure abbondanza rimane”, afferma citando le Upanisad), finisce col porsi come qualcosa di fisso nella sua positività, con la sua tendenza irreprimibile a tramutarsi in manuale di saggezza.

Se questo è il limite che conviene sottolineare di Il re e il cadavere, non si può negare costituisce anche un aspetto, e non dei minori, del suo fascino: il piacere di capire, la consolazione di riconoscere o di intravedere dei punti fermi e di sentirsi più saggi e sereni per tutta la durata della lettura. Non è tuttavia questo a renderla consigliabile, quanto piuttosto, insieme ai molti pregi già citati, la grande bellezza delle storie che in modo veramente magistrale Zimmer racconta.

Per il lettore poi che non si accontenti della momentanea o più duratura pacificazione delle risposte che propone, resta valido l’incitamento ad amare e convivere con queste storie sia per se stesse, sia per farle ogni volta rigerminare, magari a partire dal punto in cui Zimmer tace, dalle domande a cui non risponde o che nemmeno pone, fino a quello di non-conciliazione che pure qualche mito indica, laddove nessuna saggezza e nessuna unità sono possibili, per quanta nostalgia possiamo averne.





Heinrich Zimmer, Il re e il cadavere – storie della vittoria dell’anima sul male, Adelphi, Milano, 1983, p. 347.




07/02/18

Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città (01-05-1984)

 
È tempo di trenodie, civili, virili, talvolta nostalgiche e però mai molli, sdegnate piuttosto, magari rabbiose, e sempre più frequenti. Tutte giustificate. Chi sul passato prossimo, chi su quello remoto, difficile lasciarsi sfuggire l’occasione per intonare lamentazioni. Naturale: e quando mai il presente è stato roseo? Meglio il passato (e meglio lasciar perdere il futuro).
E certo quando si legge un libro come Ascolto il tuo cuore, città, la tentazione trenodica è la più spontanea. Ah, la vecchia Milano!, vien da pensare. Ma il rimpianto è solo nostro; Savinio, da quell’uomo sommamente civile che era, mai vi avrebbe indulto (“le prefiche che urlano ai funerali ci ripugnano”), ed anzi, proprio perché civile, pur non vedendo il presente roseo, e il suo non lo era proprio, ha sempre cercato di viverne il meglio, o di viverlo al meglio. E pur ripugnandogli anche la forma di retorica “peggiore: la retorica dell’ottimismo”, aveva inoltre fiducia nel futuro: “da queste rovine sorgerà una città più forte, più ricca, più bella”, aveva il coraggio di scrivere dopo i bombardamenti del 1943. Fiducia un po’ eccessiva al nostro senno di poi. Né si può rimproverargli di non aver pensato a Baggio o Quarto Oggiaro, a Sesto, Bollate o Trezzano: altra era la sua Milano, una Milano quasi intemporale, in cui la storia era sì presente, ma sedimentata in una civiltà giunta alla sua maturazione culturale e sociale: “il luogo della nostra immortalità terrestre”. Forse più un’idea che una realtà; eppure è bello pensare che così fosse e che qualcuno ne abbia fatto l’encomio: ovviamente un non-milanese, per quanto più milanese di quelli veri, come tutti i milanesi d’elezione (come Stendhal, ad esempio, che non a caso viene sovente citato e richiamato).

È sbagliato però cercare una Milano reale quando a parlarne è uno scrittore che, come Savinio, si assimila qualsiasi cosa tocchi; ma se fosse proprio la sua, la Milano più reale, se non la più vera, mentre l’altra, quella che chiama reale la nostra abitudine, non fosse che una maschera, una brutta copia, o più semplicemente un’omonima? Così sarebbe improprio cercare in questo libro un baedeker di alto livello, poetico magari, sebbene in fondo, se per far conoscere e parlare di una città la sua descrizione non basta, il libro sia proprio questo: forse il baedeker ideale non può che essere autobiografico, nel senso più lato del termine.

Una città vive solo della vita di chi la narra, quando i suoi luoghi si animano di chi ci ha vissuto e si è incontrato, quando percorrendo le sue strade e entrando nelle sue case si tracciano traiettorie non solo fisiche, quando è impossibile parlarne da turista o passeggero. In Ascolto il tuo cuore, città tutto si anima e vive: i manichini del Museo della Scala, le statue che abitano le piazze, le case dalla facciata rivolta verso l’interno, la nebbia e la stessa toponomastica come e forse più dei fantasmi illustri e degli amici che Savinio evoca (Manzoni, Parini, Verdi, Dossi, Boito, pittori, scrittori e gente comune).

Più che nello spazio, la narrazione di Savinio si muove nel tempo; o meglio: in uno spazio che il tempo apre fino a portarlo verso altri luoghi, moltiplicando affinità e compresenze; e più nel tempo del linguaggio, attraverso analogie, associazioni, contiguità e assonanze, che in quello più rilevante del ricordo, col tono amabile e in apparenza sconnesso di un grande conversatore per il quale tutto può servire da spunto per tutto, aneddoti, riflessioni morali, storiche ed estetiche, bons mots, idiosincrasie, predilezioni: arte di vivere insomma. Quell’arte di vivere che produce ogni civiltà matura e che Savinio vede realizzata in sommo grado nella sua Milano.

Il tono del libro diventa così il tono della città, la cui immagine più precisa viene quindi ripetuta dal modo in cui il libro è costruito. Così anche la moralità e la cultura storica e artistica oltre che umana di cui il libro è ricco (ma allora anche una certa monotonia o facilità affiorante a momenti, certa eccessiva sicurezza e la stessa miopia di ogni civiltà matura e “chiusa”) non sarebbero solo espressione dell’esperienza e delle opinioni di Savinio, ma più estesamente della civiltà che in Milano si incarna, secondo lui la migliore.

Qualcuno resterà perplesso di fronte alla definizione e alla valutazione di questa civiltà, specie a scendere nel dettaglio, ma più che avanzare critiche è opportuno considerarle nell’ottica saviniana, come parti del suo mondo che qui si rivela in modo diretto e diffuso. È proprio in libri come questo infatti che è più facile entrare nel laboratorio di uno scrittore, trovare esibiti metodo e strumenti, i temi preferiti, le idee basilari e la foresta dei pareri e dei dettagli che ne deriva. Anche per questo, oltre che per la sua intatta leggibilità e per la varietà delle suggestioni che produce, Ascolto il tuo cuore, città, senza essere tra le opere più alte del suo autore, non va relegato nel purgatorio delle periferiche o minori, come talvolta è stato frettolosamente fatto (forse perché non era più stato ristampato dopo il 1944?).

Del resto, al di là dell’altalena di osannatori e denigratori per moda o partito preso, è difficile valutare Savinio. Più di altri scrittore egli richiede infatti dedizione ma ancor più affinità; e anche in questo caso è sempre insieme vicino e lontano, uno che ci sta al fianco e che al fianco vorremmo conservare, e insieme uno che ci sfugge, non tanto perché impossibile da definire (è anzi riconoscibilissimo), quanto piuttosto perché è difficile farlo nostro e condividerlo fino in fondo. Resta sempre qualcosa che è solo suo, la parte migliore, che è poi il marchio dei veri scrittori. Ascolto il tuo cuore, città.



Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Adelphi, 1984, p. 396, £ 18.000


02/02/18

Orfeo - Il mito del poeta (1997)





Il mito di Orfeo è uno dei più amati dagli artisti, e non a caso: è il loro mito. In Orfeo l’artista non si stanca di specchiarsi come Narciso nella fonte e torna sempre a cercarlo come Orfeo stesso cercava Euridice,  poiché, mentre la ricerca gli permette di offrire di sé l’immagine che ha o vorrebbe avere, Euridice continua a sfuggirgli. Il suo è un viaggio nel regno dei morti, ma diversamente dal mito, egli non può cantare se non dopo avere ascoltato le loro voci, insoddisfatto di ciò che ha udito e alla ricerca di qualcosa di ancora più originario, che in quelle stesse voci parlerebbe e che insieme da esse sarebbe coperto, unico specchio velato che potrebbe restituirgli la sua vera immagine. Così facendo tuttavia, spesso dimentica che proprio quelle voci sono gli specchi che gli rimandano le immagini a partire dalle quali egli comincia a immaginare, di sé, quella che non vede.
Alle origini ci sarebbero l’Orfeo greco e la sua religione, ma poche sono le testimonianze dirette che ci sono rimaste e nonostante il moltiplicarsi degli studi poco ancora ne sappiamo. Più importante invece, perché da lì nella cultura occidentale hanno preso avvio tutti gli sviluppi e perché solo in essi per noi il mito vive, è la seconda origine del mito. E la seconda origine è latina, ha un luogo di nascita e un padre precisi: Virgilio, quarta Georgica; cosa disdicevole per un mito, ed è forse per questo che talvolta si preferisce dimenticarli.
A ricordarcelo invece, con grande sottigliezza di analisi e vastità di conoscenze, è il bellissimo libro di Charles Segal Orfeo - Il mito del poeta (Einaudi, 1997, p. 282, £. 48.000). Segal ci mostra come proprio Virgilio abbia definito il mito nei termini con cui tutti si sono poi confrontati cercando di approfondirli, ma tracciandone al contempo i confini al cui interno più o meno consapevolmente tutti si sono mossi, ognuno cercando di estenderli o di frastagliarli, a cominciare da Ovidio (Metamorfosi, X e XI), colui che vi ha apportato le varianti più significative di cui la tradizione abbia poi tenuto conto.
Per primo Virgilio delinea, e già nella sua completezza, il “paradigma mitico” di Orfeo, un paradigma “capace di abbracciare insieme la vita e la morte; l’ordine e la passionalità; le forme viventi e quelle inanimate; la fecondità e la sterilità; il controllo dell’uomo sulla natura e la sua fusione simpatetica in essa; il potere dell’arte sulla morte e la sua impotenza dinanzi a essa; la cedevolezza del mondo all’imperio della parola e l’incapacità del poeta di affrontare il reale...”
I confini di questo paradigma sono tracciati dal triangolo formato da amore arte e morte; i suoi protagonisti sono Orfeo da una parte e Adrasteo (più che Euridice, oggetto e simbolo del desiderio che raramente, se non in alcune versioni moderne, ha un ruolo attivo e diverso da quello di oggetto del desiderio, pur con tutte le sue implicazioni simboliche) dall’altra, anche se quella tra Orfeo e Adrasteo non è una semplice contrapposizione, perché la figura stessa di Orfeo è già duplice: eroe civilizzatore come Adrasteo, che incarna l’uomo che si confronta con la realtà per trasformarla, e insieme poeta, incantatore e sciamano che vince e viene vinto dalla morte.
Pur senza ambire, ovviamente, ad una ricostruzione esaustiva e soffermandosi quasi esclusivamente su quelle letterarie, Segal segue le principali rielaborazioni che il mito ha subito nel corso di due millenni, con particolare riferimento al 900 e trascurando un po’ quelle rinascimentali (per esempio il Poliziano) e quelle sei-settecentesche, soprattutto quelle musicali di Monteverdi e Gluck. Il risultato è che, pur con esiti talora altissimi e comunque di grande interesse per la storia della nostra cultura, esse continuano ad obbedire al paradigma virgiliano (o virgiliano-ovidiano) mettendo in discussione solo l’interpretazione dei termini e variandone di conseguenza la gerarchia ma lasciandone intatta, e impensata, la struttura.
Solo nel nostro secolo, con Rilke, questo si verifica, e non tanto nel poemetto “Orfeo. Euridice. Ermes.” del 1904, quanto nei Sonetti a Orfeo, capolavoro scritto di getto nel febbraio del 1922, contemporaneamente alle ultime Elegie duinesi. Nel suo lungo commento (che il lettore potrebbe utilmente integrare con quello fatto da F. Rella nella sua traduzione dei Sonetti, - Feltrinelli, 1991, p.177, £. 10.000), Segal mostra come Rilke più che seguire il mito lo abbia in un certo senso ricreato, sottoponendolo a quella stessa vitale metamorfosi nella quale per lui consiste l’essere stesso della vita.
 Orfeo “accoglie in sé” la metamorfosi e  fa del suo stesso canto un “processo (che) partecipa anche del mutamento”, in modo da giungere a quella “riconciliazione di mutamento e di permanenza che costituisce l’Essere”. Orfeo cioè per Rilke non è una figura mitica ma il canto stesso (“Ogni volta sempre / è Orfeo quando c’è canto”), la “traccia interminata” in cui dicibile e indicibile, attraverso la Figura, prendono forma, “infinito accoglimento” dell’esistenza nel suo trascorrere e nelle sue tensioni e infine della morte stessa pur nella sua tragicità.
Quella di Rilke potrebbe essere considerata come una terza origine di Orfeo. Da allora molte sono state le riprese. Segal ne esamina alcune nell’ultima parte del suo libro, che si chiude con quella datane da Blanchot in un saggio compreso in Lo spazio letterario. Lo stesso Blanchot che costituisce uno dei riferimenti maggiori di Jean-Michel Maulpoix in La voce di Orfeo (Hestia, p. 151, £. 22.00), che affronta, con una scrittura che alterna l’andatura saggistica a toni più tipici del suo oggetto, la nozione di lirismo e la sua storia: libro che si segnala qui come ultimo frutto della metamorfosi di un mito che sembra ben lontano dall’aver esaurito la sua vitalità.

01/02/18

In libreria


Nel settore arte della Rizzoli in Galleria c'eravamo solo io e questo signore che sembra Gillo Dorfles a commentare ciascuno per conto suo lo sfacelo luccicante del cosmo. Io tra me e me, lui a voce alta.
Mi sono accostato per cercare di capire. Niente da fare. Però il senso era chiaro.
Ciao papà, ho sussurrato prima di uscire.

E' tutto blasfemo




C'era questo scrittore, materialista e ateo, che usava l'aggettivo “blasfemo” riferito più o meno a tutto (esseri viventi e sognati, reali e mitologici, luoghi, cose, libri, sculture, immagini, voci, odori), tanto che vien da pensare che blasfema, per lui, fosse tutta la realtà in tutte le sue dimensioni, spazio-temporali e “altre”: un’offesa “innominabile” (altro aggettivo del suo pantheon linguistico) a princìpi superiori peraltro inesistenti, e in ultima analisi, anche se non sta bene dirlo, alla sua personale sensibilità, a lui stesso. Anche per questo piace a coloro che si sentono offesi dal mondo (questo, e a maggior ragione gli altri, che, come sosteneva anche Philip K. Dick, sono persino peggio), cioè praticamente a tutti. Incluso il sottoscritto.