03/11/17

Adorazione dei Magi di Lorenzo Lotto (1554-5)



E alla mostra dei quadri di Loreto del Lotto, nella sede centrale del Credito Bergamasco, l’ultimo giorno possibile, e meno male che mi sono dato una mossa se no perdevo anche questa, tra le cose che mi hanno colpito c’era questa Adorazione dei Magi, uno degli ultimissimi da lui dipinti, che a prima vista mi è parsa imperfetta, non rifinita e mediocre al contempo (poi scoprirò che probabilmente è rimasta interrotta e c’è la mano di un aiutante), mentre poi più la guardavo più, sotto i miei occhi sorpresi, diventava bella e alla fine, anche se non lo è, ma ai miei occhi sì, bellissima, con quei colori scuri, ma magnifici visti da vicino, specie la mantellina e l’abito del Re prostrato a baciare il piedino del Bambin Gesù, che alcuni dicono autoritratto del pittore ormai entrato tra gli Oblati e che si sentiva prossimo alla morte, in quella postura mai vista in altre scene del genere, che a qualcuno può sembrare goffa, ma che in me ha suscitato un effetto di grande tenerezza, come di uno slancio, con quelle braccia rigide nello sforzo di tener su il vecchio corpo per impedire che crolli del tutto a terra, come nato proprio dalla debolezza estrema che vince se stessa grazie alla forza di una grande umiltà trovata all’improvviso, scoperta nel corpo prima ancora che nella mente, come una luce che pervade e vivifica tutto, dai capelli e la barba canuti alla fronte, fino agli abiti e agli stivali. Poi, dopo un attimo di disorientamento, vedo le case che pure occupano quasi tutta la metà superiore dell’opera, muri nudi, dai colori opachi, apparentemente uniformi, ma loro pure bellissimi, che a guardarli bene rivelano una monocromia mossa, quasi cangiante a tratti, con bagliori che si irradiano sulle pareti interne e sugli stipiti delle porte che provengono chissà da dove, dal momento che i locali sembrano spogli e disabitati e fuori la luce al massimo è quella di un crepuscolo appena accennato, lontano, confinato all’orizzonte come una sfumatura dell’azzurro del cielo, o della sua memoria, simile a quello più vivido della sciarpa del secondo Re Magio e dell’abito della Madonna. Muri che sembrano provenire da altrove, da altre geografie, non mediterranee, e altri tempi, indietro di 130 anni, verso Masaccio, e avanti di quasi 400, fino a Carrà e Rosai. Poi mi fermo, ma già li avevo notati, su quei punti bianchi, piccole pennellate più corpose, che sfavillano sull’elsa di due spade e sul fermaglio, credo, della veste e con un segno più disteso lungo le pieghe della mantellina del Magio prostrato. E risalendo da lì, mi è parso bellissimo anche il gesto del secondo Re che si leva d’impulso la corona dalla testa, proprio perché poco elegante, affrettato, così simile a quello, reverente, dei contadini che si toglievano il cappello prima di entrare nelle case dei signori, o anche alla sola loro vista. Un gesto imparentato con quello che sembra promanare dalla pittura stessa, come buttata lì, bisognosa in più punti di rifinitura dei dettagli e forse anche di una passata in più di colore, o di un leggero strato di vernice, a smorzarne l’opacità, il tono sordo e insieme poco compatto, che mi ricorda certi quadri dove la tela emerge prepotente, con la sua trama, il suo colore naturale, non trattato, e che invece è di estrema perizia e raffinatezza. Intensa emozione. Devo prendere subito degli appunti, e con un movimento incerto simile a quello del secondo Magio mi affretto verso un pilastro alle mie spalle quasi pestando un piede a una signora che mi stava accanto da chissà quanto e infine appoggio il foglio che avevo in tasca al bordo inclinato di una balaustra trasparente che mi trattiene, senza proteggermi del tutto, dal vuoto sottostante del grande atrio della banca, verso cui alla fine di ogni riga corre preoccupato il mio occhio, che teme che io ne sia attratto, a dispetto di tutte le barriere.  


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