21/09/17

Su una lettera di Kierkegaard (senza tener conto del resto che ha scritto)



C’è, in un romanzo peraltro deludente, e anzi che mi ha fatto spesso incazzare (* si può leggere anche dopo), incentrato sulla vita di Kierkegaard (Stig Dalager, L’uomo dell’istante. Un romanzo su Søren Kierkegaard, Trad. it. I. Basso, 2016, Iperborea), anche se ovviamente in Danimarca ha vinto premi importanti (e ti credo!), e forse anche altrove, una lettera che parla dell’amore.  Una lettera d’amore: perché se uno scrive una lettera che parla dell’amore, in realtà è una lettera d’amore che sta scrivendo, che lo sappia o meno torto che non farò di certo al suo autore. La riproduco qui in fotografia.


È una lettera molto bella ma non voglio parlarne per ciò che dice dell’amore (ne ho piene le palle di leggere su questo argomento, e non intendo infierire sul lettore accrescendo il ciarpame, perché di meglio io non saprei fare), e tantomeno analizzarla all’interno della concezione che ne offre il filosofo danese, su cui sono state scritte tonnellate di carta, anche ipotizzando una grammatura molto bassa, quanto per come mi sembra sia stata scritta, per alcuni meccanismi che ho avuto l’impressione di scorgere… La lettera infatti è un esempio eccellente di dove possano portare l’esaltazione e le parole a cui si lascia briglia sciolta, cioè la possibilità che hanno le parole, paradossale per un filosofo così sottile e attento a ogni sfumatura e implicazione di ciò che scrive, di andare per proprio conto una volta imboccata una strada (una direzione) senza altro controllo e solo in perfetta sottomissione e aderenza alla loro logica del momento, parzialissima e insieme assoluta, delirante di desiderio e volontà di distinzione (di personalizzazione: di unica, inconfondibile individualità: io sono così; io, e io solo), che si autoalimentano, una dopo l’altra, in costante rilancio che innesca la successiva con impeto inarrestabile sempre più intenso. Cosa a cui peraltro ambisce quasi sempre chiunque scrive, perché comporta insieme una grande forza e un’estrema arrendevolezza, resistenza e cedimento intrecciati, indiscernibili (per la lucidità c’è sempre tempo).
E questa intensità trascina anche chi legge, finché non alza la testa, tira il fiato stiracchiandosi per dare sollievo al collo e alle sue povere, deboli spalle, e si dice: alt! un momento… pensiamoci un po’ sopra, proviamo a ragionare… È così, ha ragione, pensa , l’amore è questo, è proprio così che funziona, è così che vogliamo essere, accettarlo, coltivarlo, servirlo. Però…
Però no: in realtà si vuol solo far colpo (sedurre, anche quando si pongono degli ostacoli, quando si vuole attrarre e al contempo respingere, allontanare, negarsi, sottrarsi, fuggire, come farà anche un altro K.), si stanno mettendo in atto delle strategie lucidissime anche se a volte involontarie, almeno in quel momento, e insieme si vuole credere a ciò che per sedurre si dice. E magari si è convinti di crederci per davvero. Gli scrupoli a posteriori, i ‘se’ e i ‘ma’, i ‘però avrei potuto’, gli ‘era meglio se’ ecc., derivano da questo: non da un eccesso di buona coscienza e delicatezza (troppo bello!, è ancora debitore della stessa logica), ma dal senso di colpa, dalla cattiva coscienza, dalla consapevolezza, in alcuni acutissima, della falsità, perché è impossibile sedurre, volere far colpo, e essere sinceri, immacolati. Allora si rilanciano le parole, ci si abbandona, smemorati, fiduciosi, alla loro corrente, e con esse, o subito dopo, si cade in balia proprio di ciò che si intendeva più di tutto rifuggire, la cattiva coscienza. Per le anime sensibili (e quale innamorato non lo è?), l’autoflagellazione.
Se uno si autoflagella è perché ne ha tutte le ragioni.

*
Il libro, con accorgimento banale, ripercorre la vita e il pensiero di Kierkegaard partendo dagli ultimi giorni, alternando la narrazione della fine a quella del passato che, tra sogno e ricordo e allucinazione, viene ripercorso in senso rigorosamente (e un po’ ridicolmente) cronologico. Già è difficile attribuirla ai ricordi, ma immaginare sogni e più ancora allucinazioni che infilano le perline nel filo della linearità è pretendere un po’ troppo dal lettore, patto o non patto stipulato… Le due linee temporali, entrambe al presente, si alternano in modo piuttosto meccanico, per quanto l’autore, che non è certo uno sprovveduto e ha numerose qualità, si ingegni a variare i passaggi dall’una all’altra, le suture e le lunghezze, il respiro delle rispettive sequenze.
Per forza che il tempo deve procedere lineare dall’inizio all’anticamera della fine, si dirà: è una biografia; e invece no: è un romanzo, che utilizza con sicura competenza i sempre interessanti e talora bellissimi documenti e le opere del filosofo danese per ricostruirne sentimenti, pensieri, psicologia e esperienze, cercando di uniformare, di rendere omogenei, senza eccessivi dislivelli e gradini, citazioni dirette o indirette e ricostruzioni fattuali, documentate o immaginariamente ricostruite, in un tono unitario, ovviamente più narrativo che saggistico, immergendo così tutto nel brodino della facilità romanzesca di stampo ottocentesco, nonostante le malizie della modernità, con tanto di narratore onnisciente (ma ben nascosto in un’aura di oggettività), personaggi impacchettati nella loro bella caratterizzazione, descrizioni liriche e documentarie, e il sempre benvenuto colore locale e storico e paesaggistico. Stonato, oggi, se non falso. Anzi: falso, e quindi stonato. Anche se in letteratura si dovrebbe dire il contrario: stonato, e quindi falso.

Con tutto questo l’ho letto fino in fondo (416 pagine). Kierkegaard merita qualche penitenza.



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