28/06/17

Uomo che non so e non voglio definire (con ps. di due giorni dopo)



C’è quest’uomo, che non so e non voglio definire, che si aggira a passi veloci, dinoccolati per la città parlando da solo a voce alta, emettendo lamenti e suoni spesso incomprensibili, che passa sempre, regolarmente, in biblioteca, si aggira per il chiostro, poi sale a quello del piano superiore, entra nelle sale di studio e consultazione, ridiscende, gira e mugugna di nuovo, si siede sulle lastre di pietra che sormontano i bassi muretti tra le colonne dove molti allungano i piedi e depositano libri e pc,  si appoggia a una colonna a gambe raccolte o incrociate e comincia a oscillare il busto e la testa continuando a modulare a voce più spesso alta o altissima che bassa la propria fondamentale incomprensione di ciò che gli accade, chiede spiccioli senza troppo insistere, ma a volte anche sì, senza reagire ai rifiuti se non con altri mugugni tra sé mentre si allontana, attraversato da una frenesia incontenibile, e poi esce, gira per i quartieri limitrofi sempre sbuffando, raccontando il mondo ai passanti senza rivolgersi a nessuno e dopo un po’ ritorna e chi è lì e sta leggendo, studiando, chiacchierando o addirittura scrivendo, ormai non gli dà più peso, e solo qualcuno, io per esempio, spera per una volta di essere risparmiato, che gli giri alla larga, sentendosi magari in colpa per questo pensiero, ma incapace, lui pure, di contenere il disagio, il timore infondato ma pur sempre avvertito di non si sa cosa, un’aggressione, un disvelamento di qualche parte di sé che preferirebbe restasse per sempre al buio, e soprattutto (così pensa) di essere interrotto in ciò che sta facendo, spendendo così più tempo e pensieri e tensioni di quanto non farebbe prestandogli un attimo ascolto e dandogli i pochi centesimi per il caffè o altro che chiede, ricevuti i quali se ne andrebbe, non si sa se per un istante pacificato, ma certo silenzioso, col passo un po’ più lento, fino al prossimo angolo del chiostro, alla pausa davanti alla macchinetta delle bibite, o anche no, prima ancora, per tre passi, due, uno, un sospiro.


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(c'è un ps. sotto la foto)



Ps. di due giorni dopo.
Poco fa sono sceso a prendere un caffè, lui non si era ancora visto né sentito, poi, mentre aspettavo il mio turno davanti alla macchinetta, si è materializzato biascicando non so cosa. Sì è fermato davanti a me e con voce calma, chiarissima, mi ha chiesto 20 centesimi. Io, che mi ero già riproposto di mettere in pratica ciò che avevo scritto, glieli ho dati. Li ha aggiunti ad altri che aveva già in mano e ha preso una mezza di minerale gasata che ha tracannato seduto su uno dei divanetti rossi del locale-ristoro. Mentre la beveva ha ripreso a rimuginare a voce alta uno dei suoi discorsi, assolutamente incomprensibili come ho potuto verificare con grande sorpresa da presso. Non si capiva una sola parola intera. Nella raffica dei suoni emergevano qua e là coppie di sillabe che potevano alludere a qualche senso, nella mia enciclopedia quanto meno, ma senza pervenirvi né da sole né in qualche insieme o sottoinsieme. Non avevo ancora finito di sorseggiare il caffè che se n'è andato e mi è mancata la sfrontatezza di fotografarlo. In compenso poi, raggiunto il chiostro, l'ho visto sdraiato sulla prima lastra a destra nella foto, come non lo avevo mai visto prima, esattamente nella posizione dell'uomo del quadro di Rosai che avevo scelto come illustrazione l'altro giorno. 
Ecco quanto.

09/06/17

La perfezione, la cattiveria, Rembrandt, Federico De Leonardis, il sottoscritto e i lumaconi (senza tralasciare Duchamp)


Dopo la pubblicazione dell'ultimo post, La perfezione come scusa:
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/06/la-perfezione-come-scusa.html

Il buon amico Federico De Leonardis mi posta questo commento su Facebook (con preghiera di pubblicarlo a commento sul blog. Copio anche qui per comodità:)

Tutto Grazioli in 25 righe: la modestia fatta scrittura, un lumacone senza guscio che ritira gli occhi quando arriva una macchina a schiacciarlo sull'asfalto. Potrebbe avere culo e arrivare all'umida erbetta dall'altra parte della strada: un terno al lotto. Potrebbe, sarebbe, vorrebbe, avrebbe... tutta una serie di condizionali che ci fanno precipitare nella profonda tristezza che emana dalla stanza di un povero pittore del seicento olandese che per un attimo ha un'intuizione: niente ha valore se non quest'istante qui, questo specchiarsi nella mediocrità, nella sporcizia, nelle scrostature dei muri, nell'ombra del mio strumento, il cavalletto.
Pardon, la penna ( meglio oggi la tastiera del digitale).
Perfetto.
Vorrei ricordarLe però, caro Luigi Figueroa, che Rembrandt era ricco, potente e prepotente e che aveva quella cattiveria che Lei ha dimenticato di possedere e che io, Federico De Leonardis, apprezzo più di ogni altra sua qualità artistica.

RISPONDO Io
In quel periodo Rembrandt non era ancora ricco e poi finirà povero. La cattiveria c'è cher monsieur Federico De Leonardis anche in questo stesso pezzo. Non importa chi ne è l'oggetto, che lei, peraltro con una certa pertinenza (ma sostanzialmente anche no) legge in modo personale, quasi che si parli del sottoscritto sdoppiato in un Quiroga che scrive e in un Figueroroa che ne sarebbe l'oggetto. Tutto vero, e limitatissimo, cioè falso

FDL commenta il commento:
Tanto per stopparla lì, Le risparmio la mia risposta (pertinente, pertinente...), se pubblicherà il suo post sul lumacone (a meno che non l'abbia già fatto)

LG (io) gli obbedisce mettendo tutti i link (sono 4 in tutto:
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/01/luce-di-ferragosto.html
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/08/lepopea-dei-lumaconi-continua.html
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/09/bruco-oblomoviano.html
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/10/quattro-minuti.html
(ps. le immagini che vedete qui sono tratte da quest'ultimo)

dopo alcuni giorni FDL mi scrive di nuovo (vole metterlo a commento, ma è troppo lungo e non viene preso: per questo viene messa qui tutta la spataffiata al completo...)


Uno sguardo dal ponte: riflessioni su Rembrandt digitale, lumaconi e Duchamp

Per la lettura di questo post rimando a quello di Luigi Grazioli, pubblicato qualche giorno fa (La Perfezione come scusa, su grazioliluigimario.blogspot.com ), al mio commento e alla sua risposta,  sullo stesso.

Caro Luigi, mi scuso del peso aggiuntivo di cui ti carico costringendoti a questo dibattito (con tutto quello che hai da leggere!), ma precisione vuole che io non mantenga la promessa di non replicare alla tua risposta se tu avessi pubblicato la storia del Lumacone; cosa che puntualmente tu hai annunciato di aver già fatto (naturalmente hai mangiato la foglia della mia sollecitazione, che serviva ai tuoi lettori per capire il mio ragionamento sui  pericoli dell'attraversamento stradale da parte di esseri lenti, ai quali penso apparteniamo entrambi).

Figueroa giustamente replica che chi scrive è anche Quiroga e Monsieur De Leonardis ora qui (ma anche quando ha scritto il suo commento) teme addirittura che potrebbero saltar fuori anche  Ricardo Reis,  Alberto Caeiro, Bernardo Soares ecc. Quindi è perfettamente cosciente della cattiveria che ha esercitato insinuando che Grazioli avesse fatto un autoritratto. Ma era a fin di bene, per  invitarlo a esercitare con più decisione la sua non solo letterariamente (come aveva fatto prendendo per il culo i perfezionisti). E c'è riuscito, vista la reazione un po’ scomposta:

Infatti sei scivolato su una buccia di banana: intanto Rembrandt a 23 anni non era povero: il papà mugnaio apparteneva alla classe media benestante e colta (come insegna anche Il formaggio e i vermi) e poi lui, dopo dieci anni di lavoro (si cominciava prestissimo allora a non fare i bamboccioni) era già ufficialmente un maestro, con tanto di bottega, molte commesse da parte di potenti ammiratori e alla vigilia di partire per Anversa (citazione da Benn), pardon Amsterdam, per avere già da subito là uno studio affollato di allievi, tutti paganti fior di fiorini e ansiosi di apprendere la sua maniera. Non era affatto povero e, se non posso mettere la mano sul fuoco circa la sua cattiveria, posso affermare che era un artista perfettamente cosciente del proprio valore e molto deciso a valersene con una certa prepotenza. Virtù dubbia la prepotenza, è vero: i lumaconi non si spintonano, al minimo urto ritirano le antenne e si arrotolano su se stessi, aspettando il momento giusto per ridistendersi e, avanzando, lasciare dietro a sé la famosa bava, preziosissima non solo in letteratura, ma letteralmente (scusami il jeu de mot, ma recentemente a causa della persistenza di una tosse secca mi son sorbito uno schifosissimo sciroppo cavato da quella: informatevi coi vostri whatsapp se dico balle!). Adottarla o meno è una scelta legittima, un po' autolesionista nel secondo caso, ma legittima e affonda le radici nella propria storia infantile.
Non è questo che volevo ribattere parlando di banane, ma il fatto che, diffondendo cultura (i social lo sono per antonomasia), condisci i tuoi interventi con foto e immagini varie ai tuoi post e lo fai con competenza e pertinenza: non sono il solo a dimostrarla nel campo avverso - sottolineo l'aggettivo, ma la tua riproduzione dell'autoritratto è decisamente troppo scura). Che male c'è? Dirai. Già. Evviva facebook, evviva il digitale, evviva l'immagine piatta, elettronica e con la luce da dietro: è tanto democratica! Ma noi siamo snob, subiamo molto la attuale democrazia e amiamo quella diretta (democrazia e luce), riflessa, opaca e tangibile (ti ricordi la mostra di Chardin a Ferrara?).
No, siamo seri, non ho nulla contro le tue immagini, fai bene a condire i tuoi scritti, del resto perfettamente autonomi e indipendenti dalle stampelle visive, ma l'altro giorno, aprendo la tua rivista (00 Doppiozero) mi capita di  scorrere (confesso di non aver avuto la pazienza di leggerla attentamente) l'esegesi di un'esegesi: indovina su chi? Ma sì, naturalmente il solito Duchamp. L'esegeta, l'ultimo della serie infinita, era tuo fratello e dell'esegeta dell'esegeta non ho avuto cuore di ricordare il nome: a' nen pei pu (al mio paese: non ne posso più!).
Tornando a noi allora: Rembrandt  non era povero (anche se in vecchiaia, per speculazioni finanziarie andate a buca lo era diventato), ma la stanza in cui si ritrae (pare proprio che quel 25x32 sia veramente suo e non di Jan Lievens), sì. Perché è sempre una constatazione della propria miseria il momento in cui da giovani ci si rende conto della caducità della vita e del dominio del tempo. Ma è povera nella forma, attraverso la forma: non mi ricordo più chi ha affermato che per un pittore una qualsiasi tragedia è sempre in definitiva un colore. Non per Duchamp, sia chiaro (e tu, fedele fratello, lasciami spezzare una lancia contro Elio e il suo persistere a  commentare l'amato maestro: di scacchi).
Purtroppo noi qui (plurale solo maiestatis) ci attardiamo a chiacchierare, mentre quello dipingeva (e come!): opaco, addirittura denso, corposo. Ma il digitale non lo riporta.


01/06/17

La perfezione come scusa




Ha sempre scritto poco, afferma, e sempre meno con il passare del tempo perché ogni frase gli rimanderebbe la misura esatta della sua mediocrità. E di vedere infallibilmente rispecchiata questa verità, con il passare del tempo, con l’avanzare della vecchiaia, che non è saggezza ma un po’ anche sì, avrebbe, dice, sempre meno voglia. Meglio guardare da un’altra parte. Non sapere. O almeno evitare ogni occasione per tornare a toccare con mano ciò che si sa già e si cerca, spesso riuscendoci per lunghi periodi, di dimenticare.
Mentre può essere esageratamente indulgente verso gli altri, a volte persino quando non meriterebbero che disprezzo (non troppo, perché anche la fatica del disprezzo è un segno di considerazione, cioè una subordinazione), da sé non ha mai preteso, né accettato, altro che la perfezione. Solo che la perfezione non è alla sua portata, né lui è stato capace, ammette senza fatica, di sacrificare abbastanza (cioè tutto) al tentativo di raggiungerla. Del resto nemmeno saprebbe dire cosa sarebbe, questa benedetta perfezione, anche se sostiene, avendola cercata per tutta la vita cosciente, di saperla riconoscere, e indicare, i rari casi in cui gli capita di incontrarla. Ma quella è la perfezione degli altri, non la sua. Il che implica che di perfezioni ce ne sono tante, che, al limite, ogni cosa e essere vivente avrebbe la propria. In linea di principio, se non di fatto. Ciò che comunque sarebbe una bella consolazione, che però, di nuovo, lui nega a se stesso. La sua, di perfezione, è dove lui non potrà mai essere. È ciò che, qualunque cosa faccia o scriva, lui non farà o scriverà mai.

Ciononostante, ogni tanto, sempre più di rado, a dispetto del risultato che già si prefigura, ha la debolezza di ritentare, convinto, mentre lo fa, che quella potrebbe essere la volta buona, la strada giusta. Perché la mediocrità che gli verrebbe rimandata dal risultato sarebbe comunque minore di quella che lo opprimerebbe se nemmeno la imboccasse. Non crede alle fandonie che sostengono che la perfezione sarebbe già il cammino che si percorre per raggiungerla, però in certi casi è indubbio che, sulla via, preso dal cammino, per qualche impagabile momento, quell’illusione, quanto a sé, dice, diventa una certezza.
Che ovviamente sparisce non appena si rilegge.