30/10/16

Leggere per sapere come va a finire (o per sapere e basta)




Apro una parentesi: lo scarso interesse della e per la fine è forse più il riflesso di una mia propensione personale di quanto non corrisponda a quella di Vila-Matas o dei suoi libri, che peraltro chiudono spesso, come quasi tutti i romanzi moderni, in modo così ambiguo e sfumato che uno potrebbe pensare che, come la Parigi di uno di essi, non finiscono mai. Sta di fatto che a me non importa più leggere per sapere, e tanto meno per sapere come va a finire: questa è sempre stata l’ultima delle mie preoccupazioni, anche se vedere come qualcosa va, o viene portata verso la fine, e se questa sarà la sua fine e non una fine (perché una fine, dicono, ci vuole), ecco, questo mi ha sempre attratto, come per i bambini rompere i giocattoli per vedere come sono fatti, con il vantaggio, qui, che il giocattolo resta intatto e poi si gioca anche meglio; e per scoprire cosa posso, o potrei, farne, e se qualcosa, poco o tanto, anche solo astrattamente, come puro abbozzo mentale, mi spinge, con un soffio gelido alla nuca magari (per dirla con Vila-Matas) che potrebbe portarmi altrove. E già mi ci porta, difatti, con la pura potenzialità, altrove o dentro: dentro l’opera, o la realtà, o dentro me, dove opera e realtà per qualche istante coincidono per subito separarsi, per quanto subordinare la lettura, come qualsiasi altra cosa (quasi tutto), ad altro, mi ripugni... nonostante già iniziare qualcosa, aprirsi ad essa, accettarla, immergervisi, non si esaurisca mai in se stesso, in pura gratuità, perché anche la scoperta, l’accoglienza e l’abbandono a quella cosa (opera, situazione, luogo, evento o persona) non si esaurisce né conclude mai in se stesso e tutto va oltre, avanti, da qualche parte, e si perde, e anche l’uso, la possibilità, l’apertura vanno oltre se stessi e si perdono, e proprio lì, magari, recuperano, o ritrovano, una loro gratuità, quella forse di ogni cosa quando viene meno a se stessa, e in generale viene meno e basta.

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