28/05/16

Marco Ercolani, Turno di guardia


Marco Ercolani è psichiatra e quindi non sorprende che la follia occupi un posto rilevante nel suo lavoro di scrittore e critico. Sorprendono invece la varietà dei modi in cui il suo rapporto di medico e artista con essa è stato declinato e la molteplicità delle forme che ha assunto: mai come ambiente, fonte di storie o serbatoio di personaggi o aneddoti, ma sempre spazio mutevole indagato al limite, in bilico sul filo tra follia e opera, esperienza e studio, malattia e sintomo, persona e paziente, cercando di preservare a ciascun corno della dicotomia la sua specificità e autonomia, il rispetto per la voce che gli è propria e insieme la possibilità di un passaggio dall'uno all'altro: ponte, porta, segno, empatia. Vale a dire attenzione che rifiuta al folle il ruolo di astrazione, ma anzi riceve proprio dalla sua individualità lo stimolo a riconoscere in sé un identico spazio e a provare a rispondere alle sue radicali interrogazioni senza stemperarle, ma anche senza idealizzarle dimenticando che è dalla follia che provengono: dalla malattia e dal dolore da cui il folle chiede di essere liberato. E questo sia che il rapporto con la follia prenda poi la forma di riflessioni saggistiche (come in L'opera non perfetta Note su arte e follia 1999-2009, Nicomp L.E., 2010), sia che riporti, come quadri circoscritti, ma senza cornice, i deliri, le voci e le esperienze, fatti e misfatti, dei malati (come in Anime strane, Greco&Greco, Milano, 2004 e Sento le voci, La vita felice, Milano, 2009, scritti in coppia con la moglie Lucetta Frisa), ovvero che essi abbiano il ruolo di attori e interlocutori diretti come nel recente Turno di guardia (Il Canneto Editore, Genova, p. 113, E. 7). Sottolineo malati e folli, perché tali sono e li chiama Ercolani, senza ricorrere a eufemismi o palliativi di sorta: sono malati, pazienti, che patiscono  e non hanno più la pazienza di sopportarlo, anche se a volte non manca chi, "guarito", rimpiange la malattia: "Non sarei dovuto guarire. Ora detesto la vita. Non sarei dovuto finire così. Prima c'erano ventisette ponti, trecento odori, seicento colori. Ora niente. Sto dentro un appartamento e aspetto di morire." (Ma se è guarito, che ci fa al pronto soccorso in piena notte? Forse che la "guarigione" non è che una forma più accettata ma non meno dolorosa di malattia?)
Se però il rapporto di Ercolani con la malattia è sempre personale, non è mai dato di trovarlo in prima persona nelle sue opere: anzi, la sua cura è sempre stata di eclissarsi, di annullarsi, non solo come forma di pudore e rispetto per la sofferenza, ma come igiene dello sguardo e precisa strategia di scrittura, come aveva fatto in molti dei libri precedenti non a caso spesso imperniati sul tema dell'apocrifo e sui diversi stili che ne conseguivano.


Le cose cambiano invece, e con esiti molto felici, proprio in questo Turno di guardia, dove lo psichiatra, che i turni li fa (li patisce) in un ospedale di una grande città, è in primo piano non solo come soggetto dell'enunciazione e portatore dell'esperienza professionale nonché di artista e studioso, ma anche come bersaglio di considerazioni sarcastiche o aggressive, oltre che di richieste, imploranti o imperative, da parte del tragico campionario umano ai cui bisogni egli cerca di assolvere, ritrovandosi spesso impotente, nelle infinite notti di guardia, in turni anche di 12 ore che a volte si susseguono per giorni e giorni senza pause.
Dementi, barboni, tossici, alcolizzati, suicidi mancati o potenziali, paranoici e schizofrenici, tanti stranieri: stranieri tutti. E straniero, altro, è anche lo psichiatra stesso, lo psichiatra che è scrittore e che come tale è talvolta riconosciuto, e stigmatizzato, deriso e accusato, dai suoi pazienti, a cui cerca di prestare le cure più urgenti in notti "interminabili" in cui la fatica e il sonno si accumulano, combattuti da un lato con letture, film in dvd, testi da scrivere e referti da stilare o consultare; e soprattutto intralciati, dall'altro, dalle chiamate dal pronto soccorso, casi urgenti da ascoltare o sedare, voci che urlano nei reparti, a volte in ululati ininterrotti, e altre come grida isolate, ma più lancinanti, a intervalli regolari, con scansioni esatte, cronometriche, ed effetti più catastrofici sul decorso del tempo, che negli intervalli non si distende in pausa e sollievo, ma si riempie dell'attesa angosciosa del loro ritorno inesorabile.
Brevi storie scandite in capitoli che spesso non superano la pagina, destini chiusi in poche frasi, in dialoghi rabbiosi ma che celano la supplica nella negazione che alla rabbia dà voce, o in brevi monologhi, definizioni e esemplificazioni illuminanti delle malattie e dei loro sintomi (deliri, allucinazioni, crisi epilettiche, di panico, di violenza...), e sintesi di grande efficacia espressiva e di disincantata ma partecipe saggezza, o come condensato, o meglio: precipitato esperienziale. Mai però riducendo a simboli i folli, sempre invece "esseri veri che producono finzioni", che "vivono, giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, la percezione di un mondo disintegrato, un mondo che non sentono neppure legato al proprio dolore psichico, ma che avvertono come disastro continuo, concreto, reale, fissato nelle cose, ripetuto nel tempo".
Ma la ricchezza di questo libretto non si limita a questo: essa deriva anche dall'intreccio delle storie con la riflessione che Ercolani non cessa di esercitare sul proprio lavoro: lavoro duplice, in cui scrittura e psichiatria rimandano l'una all'altra e quasi si confondono, perché la prima non va senza la competenza e la strumentazione della seconda, e viceversa queste non possono trovare espressione senza la riflessione e la consapevolezza delle forme, dell'artificio e delle implicazioni della prima.
Chiedersi come parlare ai pazzi quando non c'è tempo di fare nessun discorso, come affrontare l'urgenza delle ferite invisibili e che non si esprimono se non indirettamente, e spesso attraverso il rifiuto e il silenzio, non può essere disgiunto dal chiedersi come dare voce a questi incontri, come trarre esperienza dai loro insegnamenti senza cercare insieme le forme, il linguaggio e le modulazioni e intensità adeguate; e come, infine, conservare ogni istante la consapevolezza di avere di fronte un essere umano singolare e dell'unicità del dialogo che esso richiede, impedendo al contempo che "la conoscenza di destini eretici o infelici influenzi il lettore con irrilevanti sentimenti di compassione". La partecipazione si nutre anche di distanza; la terapia, di riconoscimento e uso della differenza. Se "aver avuto terrore e non volerlo più provare è la giustificazione segreta del delirio", il medico, da parte sua, anche se "per ogni mondo parallelo" prova sempre "un'ostinata tenerezza", deve però aiutare il malato a dargli "una logica" e chiedergli "di delirare con prudenza", di non lasciarsene sopraffare, incerto di riuscirci lui stesso quando, stremato, esce "dai muri della stanza di guardia come dalle pareti di uno specchio". Di uno specchio, aggiunge, che "è crepato", in cui si può mettere "la testa dentro", ma da cui è possibile, per lui, "guardare anche fuori. Affacciar[s]i all'altro mondo con la testa semidecapitata dal cerchio delle loro, delle [sue] visioni". Come noi dal cerchio delle nostre, all'uscita dallo specchio di questo libro.

Marco Ercolani, Turno di guardia, Il Canneto Editore, Genova, p. 122, 7

 

19/05/16

Aldo Zargani narratore, la sintassi e il libero arbitrio



Siamo sempre prossimi al “luogo dove il profumo della memoria [sta per svanire], là, vicino al confine del deficit dove inizia il nulla del dimenticato”, scrive Aldo Zargani in apertura del suo bellissimo racconto “Profumo di lago”. Proprio per questo, per il “terrore” che gli fa l’oblio, all’insegna della lotta contro di esso, lo scrittore pone tutta la sua opera narrativa e la sua attività di saggista e testimone, anche se non indulge in alcun modo a posizioni vittimarie, pur avendo subito lui e la sua famiglia le conseguenze delle leggi razziali e molti suoi parenti e amici la deportazione e la morte nei lager nazisti. Il dovere di testimonianza non è mai disgiunto infatti da un preciso impegno civile, sempre centrato sul qui e ora della vita, in una prospettiva idealmente positiva e propositiva che non si è lasciata spezzare né dalle vicende recenti della storia né da un’inflessibile lucidità che in altri facilmente si traduce in amarezza e disillusione. Come dice Claudio Vercelli, “non si è vittime se si è soggetti attivi del cambiamento”.

Quasi tutti i suoi testi sono di matrice autobiografica, ma vengono presentati come romanzi e racconti. Il primo e più importante romanzo, Per violino solo, racconta le peripezie della famiglia Zargani, genitori e due figlioletti, negli anni che vanno dall’emanazione delle leggi razziali, dal fallito tentativo di emigrare nella speranza che il padre musicista trovi lavoro in Svizzera e dal conseguente ritorno a Torino e all’inasprimento delle condizioni di vita specie dopo l’entrata in guerra, fino, passando per la forzata clandestinità, alla fine del conflitto: anni che coincidono con l’infanzia e l’ingresso nell’adolescenza del piccolo Aldo. La sua storia prosegue con Certe promesse d’amore, che copre i primi anni nel dopoguerra, dal ritorno a scuola ai campeggi dei boy scout e alle Colonie Collettive Ebraiche di Rieducazione Agricola, fino all’ingresso nell’età adulta segnato dalle prime esperienze lavorative e dalla fine dei progetti di emigrazione e soprattutto dell’amore con Dlilah, con cui avrebbe dovuto trasferirsi in Israele. Queste vicende sono poi sviluppate e integrate dai numerosi racconti che Zargani è venuto pubblicando su giornali e riviste cartacee e sul web, toccando eventi anche più recenti.

La memoria infatti non si ferma alla tragedia della guerra e alle sue ripercussioni macroscopiche, ma deve comprendere anche ciò che la segue, le conseguenze ma prima ancora le varie sequenze che lo hanno caratterizzato, il seguito come è venuto costruendosi nel quotidiano e nel personale, nella storia “minore” ma non per questo meno importante in cui la famiglia Zargani è immersa e da cui è condizionata, via via, a raggio sempre più ampio: dalla nuova casa nel quartiere operaio alla Trieste della famiglia così simile e diversa, perché credente e osservante, di Dlilah; dall’arrivo in città delle brigate ebraiche inglesi al ritorno dei sopravvissuti dalla clandestinità e dai lager; dalle speranze del sionismo socialista alla controversa edificazione dello stato di Israele.

La paura non ancora dell’oblio, lo spaesamento, l’incertezza relativa al proprio statuto prima ancora che al proprio futuro, i dubbi relativi alla propria effettiva condizione anche quando la realtà si incarica di puntualizzarla con ferocia (come nel caso dell’arresto dei genitori) e il conflitto sempre aperto con un’autopercezione che tarda ad accettarla pienamente, restano comunque il cielo sotto il quale Zargani è cresciuto, dopo una prima infanzia serena che fortunatamente ha lasciato una traccia permanente nella sua personalità, e la tonalità di fondo del capolavoro Per violino solo e di molti racconti. Paura per i genitori, per il fratello e per sé, ma anche la capacità presto acquisita di tenerla a bada e non darla a vedere, tanto che di rado viene apertamente tematizzata o giunge a determinare i gesti e le parole del piccolo Aldo, che sono invece spesso caratterizzati, che sia stato proprio così o anche una proiezione della personalità attuale del narratore, da lucidità e ironia, a volte spinta fino a risvolti comici, magari caustica, e però mai cinica e rinunciataria o pessimista. La famiglia durante le sue drammatiche peripezie, e il figlio maggiore con essa, conservano sempre un principio di speranza, che nel giovane Aldo evolve poi in ideali politici socialisti, e, anche dopo le disillusioni che hanno costellato gli ultimi decenni (Israele incluso, pure molto amato), in un sentire umano che si diffonde sulla vita anche nei momenti in cui maggiore sarebbe la tentazione di buttarlo a mare.

E di vita e vitalità sono ricolmi i suoi libri, e non paradossalmente, a dispetto dell’atmosfera di pericolo e morte incombenti su tanti personaggi che infatti poi sono caduti vittima del nazismo e del suoi tirapiedi repubblichini, ma perché la narrazione avviene dal punto di vista a volte smarrito, spesso impaurito, ma sempre vitale di un ragazzino, e anche perché è la memoria affettuosa dell’uomo anziano che continua a rievocare i suoi morti, più che nel tono del lutto, in quello dell’amore che conserva in vita anche chi non c’è più (come avverrà anche per i sopravvissuti persi nella distanza dello spazio e del tempo, come la fidanzatina Dlilah e suo fratello e gli amici dell’adolescenza, in Certe promesse d’amore). E tutte vive sono infatti le figure minori e marginali che costellano i suoi testi (il pastore, la cameriera Livia, la zia Lina, certi sacerdoti e insegnanti, i taglialegna, i genitori di Dlilah: figure, alcune, con tratti che si direbbero schulziani, se non fosse che l’ambiente ebraico evocato, di ceto più borghese e laico che popolare, non ha nulla di quell’enciclopedia della stramberia poetica che è lo shtetl orientale, almeno in certi suoi scrittori e artisti come I.B. Singer e Chagall), tutte memorabili e quasi mai bozzettistiche, perché tutte scaturite dal principio del ricordo e dall’imperativo della giustizia. Gli stessi imperativi che spingono Zargani a cercare nella memoria anche solo bagliori di figure scomparse di cui si intravedono solo dei nomi sulle lapidi del cimitero torinese, perché se salvare anche solo una vita, come dicono il Talmud e sulla sua scorta anche il Corano, equivale a salvare il mondo intero, questo dovrebbe valere anche per la vita degli scomparsi, soprattutto di coloro di cui più rischia di non sopravvivere nessuna traccia.

Se il discorso è non di rado scanzonato e amabilmente irriverente, è però anche pervaso da una partecipazione insieme dolente e disincantata e da una costante attenzione al dettaglio umano che individualizza e dà a ciascuno il suo, in una notevole varietà di gradazioni sotto le quali scorre, a volte messa in sordina, ma sempre presente, mai sopita, la corrente profonda della tragedia, che ogni tanto riaffiora per brevi tratti, buia eppure abbacinante, violenta ma non clamorosa, mai calcata e spettacolare (ciò che, invece che accentuarne la forza, la edulcorerebbe rendendola più accetta), silenziosa, piuttosto.


Ma la memoria e la rievocazione di un periodo così denso di eventi e drammi, e speranze e problemi, non sono il solo motivo di interesse dell’opera di Zargani: la novità risiede invece nel punto di vista e nel dettaglio delle vicende narrate, alcune peculiari della famiglia Zargani, altre già note per ricostruzioni storiche o finzionali ma raramente presentate con tale forza e efficacia. Penso in particolare alla storia di una famiglia in fuga, clandestina, tra rischi di delazione e protezioni a volte trovate in luoghi e persone assolutamente insperati, come in pretura o nel carcere, il rifugio in un collegio di salesiani per figli, in montagna per i genitori. Ma penso anche, per esempio, al racconto , in “Dies irae”, della visione a guerra appena terminata dei documentari della Combat Film sui campi di concentramento e sulle impiccagioni dei criminali nazisti e dei loro complici, e sulle umiliazioni inflitte alla popolazione tedesca per la sua connivenza: “Per odiare li volevamo vedere, per godere della loro umiliazione, gioire della loro vergogna”, travolti da ira e stupore: “Passioni, smisurate e devastanti, che riempivano la mia mente di bambino.” Nessun buonismo di principio: più che il perdono, e anche più che la giustizia, il ragazzino, e gli adulti con lui, è la vendetta che desidera e così, senza sensi di colpa ma anche senza scuse o giustificazioni, l’anziano scrittore racconta queste passioni, per capire le proprie reazioni ma soprattutto perché così è stato, per lui e per molti di quelli che riempivano quelle sale, tra i quali avrebbe potuto benissimo esserci anche il lettore, fosse vissuto allora, uscito da quelle esperienze. “E ciò avvenne per l’unica volta nella mia vita, perché l’ira e lo stupore mi hanno saziato per sempre nella lontana estate di quando avevo 12 anni”, aggiunge Zargani; ma il lettore non ci crede, perché, se non l’ira, almeno la capacità di stupore che si riscontra in molte sue pagine non è ascrivibile solo al bambino di allora, ma viene dritta dritta dall’adulto che scrive: non è il ricordo, sono il presente del ricordare, e la sua qualità, la sua grana, che cambia di chimica e intensità da individuo a individuo. Ricordare non basta.

C’è sempre un mistero nel punto da cui provengono le storie, là dove motivazioni coscienti e cause esterne e spiegazioni esistenziali o razionali, per quanto giuste e necessarie (la lotta contro l’oblio e le distorsioni, la morte che si avvicina, e perché “è bello, dopo le disgrazie, raccontare”...) non sono così decisive, e dove si radicano invece lo sguardo e quel timbro peculiare che conferiscono realtà, perché raggiungono il cuore vivo della comprensione, alle vicende e figure rievocate, e rendono la necessità davvero tale, incarnata.

Quando la forza di questo impulso e dello sguardo infantile che vive in diretta ciò che narra anche nel tempo dello scrittore ormai maturo (perché tutte le età convivono in ogni qui e ora), si affievolisce e prevalgono le altre motivazioni, la rievocazione diventa “sentimentale” e “letteraria”, come in certi passaggi di Certe promesse d’amore, e il discorso si allenta e indebolisce. Forse questa forza (la necessità) è legata a un trauma sempre vivo, alla dolorosa sorpresa di ritrovarsi da un giorno all’altro discriminato, senza che nulla all’apparenza sia cambiato attorno, al trauma di sentirsi ed essere vittima che è rimasto senza vera spiegazione, al di là di tutte quelle che sono state avanzate da storici e sociologi e psicologi (e aguzzini o persecutori indifferenti), senza riuscire a trovare una vera ragione lungo tutta l’esistenza. Come senza spiegazione resta la domanda fondamentale di tutti i sopravvissuti al lager, ma anche, nel caso di Zargani, di coloro che sono scampati persino alla deportazione, sul perché proprio loro si sono salvati quando così tanti attorno a loro non sono tornati. Forse proprio questo ha tenuto vivo lo sguardo sul mondo del bambino che doveva crescere in fretta e capire come comportarsi, come dissimulare e essere savio e diligente a scuola, senza troppo apparire, prudente e circospetto, pur restando ottimista, aperto, nel solco dell’imprinting positivo ricevuto in dote dall’amore non solo famigliare nei primissimi anni, in una costante tensione tra incanto e delusione, bellezza e stortura, ingenuità dell’età e indispensabili strategie di sopravvivenza, mentre più tardi, nell’adolescenza e nelle tracce che essa ha lasciato, questa tensione si è in parte allentata, di modo che la scrittura si è ritrovata a dover compensare, facendosi più “bella”, più accurata, desiderosa di sorprendere e di piacere, e in realtà proprio così indebolendosi, rendendo a tratti meno serrata la narrazione e più frammentario il discorso, costruiti, forzati per “fare romanzo”.

Tuttavia la forma “romanzo”, e non quella del memoriale o dell’autobiografia, è necessaria non solo per un dovere di onestà, per compensare le lacune dovute alla distanza temporale e le distorsioni che i ricordi sempre comportano (con una dichiarazione paradossale di adesione alla verità di quelli falsi per come sono percepiti nel momento stesso del racconto, piuttosto che a quella, riportata tuttavia in nota, della realtà documentata): lo è anche, contrariamente a quanto è avvenuto per scrittori come Primo Levi che scrivendo a ridosso del trauma l’hanno adottata per tener lontano l’incandescenza della materia e non lasciarsi travolgere da ciò che appariva come indicibile, per lo scopo opposto di non privare di forza e incandescenza un materiale che rischia di apparire lontano e inficiato dalle magagne della memoria, e soprattutto di raffreddarsi eccessivamente nella consuetudine delle rievocazioni e nella distanza del discorso storico da una parte e nel sempre incombente buio dell’oblio dall’altra. Gli ultimi testimoni stanno scomparendo e quindi ribadire e consolidare la testimonianza si fa più urgente, mentre il discorso storico prende sempre più, e giustamente, il sopravvento; ma proprio questo apre un nuovo spazio per un diverso rapporto tra memoria e finzione, letteraria e anche filmica, come dimostrano esempi recenti (cfr. Il figlio di Saul), per esplorare territori che esulano dalla ricostruzione oggettiva e nondimeno sono indispensabili per capire cosa è successo e favorire comprensione e adesione.

Il romanzo permette inoltre a Zargani di restare nel concreto e di non abbandonare mai il campo delle singolarità anche quando è di vicende collettive che narra, evitando di proiettare su persone e fatti circoscritti un’aura eccezionale e al contempo esemplare, o di renderli metaforici di una condizione generale o assoluta, e attribuisce al singolo e allo specifico ciò che gli spetta e che esso solo può trasmettere, perché è di esso, della sua molteplicità e delle sue infinite connessioni che la realtà e la storia sono fatte. Di qui la necessità, cioè il dovere ma anche il compito faticoso, di connettere. Compito collettivo ma prima ancora soggettivo, che ciascuno può decidere di assumere o di lasciar cadere. Con una frase che da sola basterebbe a farmelo amare, Zargani dice: “La sintassi è la sede del libero arbitrio”. Si tratta di un’affermazione importante non per vezzo letterario o estetizzante, ma perché l’accento sulla sintassi è appunto quello sulla connessione, sulla consapevolezza della pluralità e della gerarchia, sia pure mobili e sempre da verificare, dei rapporti tra le azioni e le cose della vita, e sulla assunzione della responsabilità di provare a riconoscerli e istituirne laddove sembra che le cose giacciano irrelate una accanto all’altra, come se fossero semplicemente date e non, anche, effetto della molteplicità dei gesti e dei sentimenti e delle idiosincrasie e paure e pregiudizi degli uomini. I romanzi e i racconti di Zargani, pur così leggibili e capaci di trasmettere anche “un intimo senso di consolazione, come dice Olivier Favier, di questa molteplicità e delle sue differenti stratificazioni sono costituiti. Non si tratta solo dei diversi registri della scrittura, ma della sintassi stessa della forma dei testi, dei vari modi e ritmi del loro montaggio, di come si susseguono e fondono e contrastano i piani temporali e i punti di vista dei personaggi e del narratore, e come si combinano la narrazione e la riflessione e il commento, l’allora e l’ora del discorso, che sono anche i modi in cui prendono posizione verso la realtà passate e presente e insieme danno al lettore gli strumenti e lo spazio per trarre le sue deduzioni e costruire a propria volta la sua sintassi, razionale possibilmente, attento al dovere di verità e non chiuso alle risorse dell’immaginazione, vigile e lucido, e però sempre emozionato, divertito e commosso. È in questa assunzione di responsabilità, verso i viventi e i morti, verso la memoria e il suo radicamento nel presente, che risiede la libertà dell’arbitrio, e giustamente. La grammatica è il luogo della regola, la sintassi lo spazio della libertà. Zargani onora entrambe e implicitamente sollecita il lettore a fare altrettanto. 



a: Profumo di Lago, Dies irae e Olivier Favier :  

a Per violino solo: https://www.mulino.it/isbn/9788815134110





12/05/16

Rinoceronte



Molte sono le meraviglie di questa ricostruzione dureriana del rinoceronte, ma la cosa che personalmente più mi colpisce è quella specie di coordinato maglietta della salute e mutandoni, con l'orlo magistralmente cucito, che scendono a coprire pudicamente le natiche fino al ginocchio.
Il ritratto dal vero che ne fa Pietro Longhi più di due secolo dopo, per quanto più aderente alla realtà, resta ancora condizionato dal modello del grande tedesco, di cui corregge molti dettagli ma ripete proprio i mutandoni (tra l’altro)... 

Erano epoche molto fredde.


continua...

04/05/16

Ringraziare gli ignoti e i noti


I stagione 
Capita talvolta di incrociare la bellezza nel mondo. Avevo scritto del mondo, ma era sbagliato: la bellezza non del mondo in generale, ma di qualche suo dettaglio o aspetto: la bellezza di ciò che fa il mondo. La cogliamo e tanti saluti, senza sapere chi ringraziare. Invece rendere grazie è una buona cosa. A me piace farlo. Non solo è giusto, tanto più verso chi si eclissa prima di riceverle, ma fa star bene. A me succede così, almeno. E allora grazie a tutti i benefattori anonimi.
Oggi voglio rendere omaggio a un giardiniere di cui ignoro il nome. Chi passeggia sulla strada sterrata che costeggia il naviglio da Groppello a Vaprio d'Adda, se a un certo punto, sulla riva spoglia, incontra un bellissimo cespuglio di rose canine, stupito che resista e cresca così rigoglioso, deve ringraziare lui.
Me lo descrivono come un signore sui settant'anni, di media altezza, robusto, con un che di atletico: ancora un bell'uomo. Ha lavorato tutta la vita alla manutenzione del canale alle dipendenze del Consorzio del Naviglio, e continua a farlo per conto suo ora che è in pensione. Conosce la zona palmo a palmo, i sentieri, la flora e la fauna, le sue vicende e le controversie sulla gestione e la preservazione. Una memoria storica che a nessuno interessa preservare e che lui non scriverà mai. Io lo starei volentieri a sentire, ma non ho mai avuto occasione di incontrarlo. Si prende cura del cespuglio come se fosse cosa sua. E lo è.
Quando è la stagione prende la bicicletta e percorre le rive con i suoi pochi attrezzi in uno zainetto, pota i cespugli, li circoscrive con paletti  e nastri a strisce bianche e rosse perché i nuovi operai del Consorzio non taglino o facciano altri danni, pulisce dalle erbacce e dissoda la terra circostante, raccoglie in un sacco di iuta i rifiuti e se ne torna a casa. Ogni giorno, se il tempo non è troppo inclemente, provvede a un segmento di riva.  Tra Vaprio e Concesa ha curato e preservato una splendida buddleia, per esempio. Se necessario, anche quando inclemente il tempo lo è.
Finito con la riva, si dedica ai cespugli che, grazie alla disseminazione, sono cresciuti sull'altro lato della strada, quello boschivo, limitandosi alla vegetazione dei margini, dato che il bosco non può essere toccato. Qui non c'è bisogno di paletti e nastri, perché il Consorzio si occupa solo del canale e delle sue sponde e quindi nessuno si prenderà l'iniziativa di andarli a tagliare. Figuriamoci!
Fa tutto questo perché non si fida dei nuovi operai, che cambiano prima di fare in tempo ad affezionarsi al Naviglio, ammesso che ne siano capaci, e tantomeno al lavoro. A volte, sistemata la riva, scende anche alla spiaggetta ai bordi dell'Adda e dà qualche ritocco qua e là. Poi, immagino contento, se ne va. Lo siamo anche noi, grazie a lui.


II stagione
Se è bello ringraziare chi non si conosce, lo è ancora di più farlo al diretto interessato quando un caso fortunato ti porta a conoscerlo.
La storia di prima me l'ha raccontata Alberto B., di Treviglio ma cittadino onorario di Fara, che ogni tanto mi accompagna in queste passeggiate. Grazie anche a Alberto.
L'anno scorso, a metà luglio, e precisamente il giorno dopo il mio compleanno, quando di pessimo umore (gli anni cominciano a essere tanti) ho fatto la mia solita passeggiata ho avuto la più che pessima (chiedo scusa dell'esagerazione) sorpresa di non trovare più il cespuglio. Ne ho sofferto. Il giusto. Ci sono tragedie peggiori a questo mondo, lo so, ma hanno le loro agenzie specializzate a divulgarle (e spiegarle), e io certo non le sottovaluto né trascuro (sia detto una volta per tutte), ma qui mi piace limitarmi alle piccole storie di cronaca bianca, alcune condite con radici e erbe amare, che a qualcuno, lo so per certo, piace leggere o ascoltare. Pochi o tanti non importa: basterebbe uno. Contano anche loro: le piccole storie e i pochi lettori.
Qualche giorno dopo, c'era anche A., abbiamo incrociato un signore che tagliava i rovi e le erbacce in un altro punto della riva. Un cosiddetto operatore ecologico comunale, categoria onorevolissima peraltro (il titolo di giardiniere sarebbe eccessivo). Gli abbiamo chiesto se era stato lui a occuparsi anche di quelle dell'alzaia, e, ricevuta risposta affermativa, gli abbiamo chiesto se costava così tanto fare una piccola deviazione come quella che avrebbe risparmiato il cespuglio delle rose canine. O gli avevano ordinato di rasare a zero tutto? Tanto ricresce ancora, è stata la risposta. Grazie e complimenti, gli abbiamo detto. (Morale: le deviazioni costano.)
Poi il cespuglio è davvero ricresciuto in fretta, ma certo non con quell'unico grosso fusto che ne faceva l'arbusto meraviglioso che tutti ammiravamo. Persino coloro che lo avevano visto solo nelle mie improvvisate foto documentarie. Anche se bisogna ammettere che la ricrescita vertiginosa di singoli rami ha creato composizioni a ventaglio di singolare bellezza, specie d'inverno, con la neve o la brina.

 
Così mi sono affezionato anche al nuovo cespuglio, alla cui evoluzione avevo dedicato un secondo album di fotografie, che hanno procurato estimatori pure a lui. (Non era bello che si sentisse derelitto.) Questo fino alla fioritura primaverile, splendida a dispetto delle erbacce che circondavano sempre più folte il nuovo cespuglio, che a sua volta cresceva in modo sempre più disordinato.
Finché un giorno non l'ho visto più, confuso con l'erba altissima e senza i rami che sporgevano sulla carreggiata. Poi, con grande sollievo, da vicino ho notato che qualcuno aveva intrecciato i rami sporgenti con quelli nascosti tra le erbacce. Molto bene! Solo che ora aumentava il rischio che alla prossima pulitura delle rive i nuovi rami, ora indistinguibili, fossero tagliati assieme a tutto il resto. Tanto più che il tempo passava, le erbacce, i rovi e le pianticelle infestanti, in particolare intere colonie del pestilenziale ailanto alte giù due metri, crescevano rigogliose e fittissime, e il cespuglio era diventato davvero invisibile.


III stagione (in corso)
Finalmente ieri, 16 agosto, al ritorno dalla passeggiata ho visto che avevano iniziato a ripulire le rive. Non sono andato subito a verificare che fine aveva fatto il cespuglio, un po'  perché avevo fretta e più ancora perché non volevo guastarmi il buon umore che l'aria ancora fresca del primo mattino mi aveva procurato. Avevo paura.
Oggi invece, armato di macchinetta per documentare il sicuro scempio, mi sono fatto forza e ho deviato per l'alzaia. Entrambi i bordi della strada erano tagliati in modo brutale. Solo alcune erbe che sporgevano verso l'acqua erano state risparmiate. Io camminavo trepidante, ispezionando il ciglio.


Lungo il percorso ho incontrato un trattore con un grosso braccio meccanico che stava tagliando il margine verso il bosco. L'ho superato di corsa, con la scusa di non ingoiare la polvere sollevata, ma in realtà perché ormai faticavo a reggere l'ansia. Cosa non fa l'autosuggestione! (Con le anime delicate, poi!)
Invece, appena superata la curva l'ho visto! Intatto, ancora avvolto tra le erbacce che lo reggevano come una corona il diadema, si ergeva splendido e solitario. Come un diadema, appunto. Non mi dilungo sulla gioia perché il lirismo è troppo facile. (Fa niente: che gioia! Chiusa la parentesi lirica.) Gli ho girato attorno, me lo sono cullato in lungo e in largo e l'ho fotografato da ogni punto di vista (escluso quello dall'acqua).


Al ritorno, quando sono giunto all'altezza del trattore, non ho resistito, ho aspettato che si fermasse per una pausa e ho bussato al finestrino. Il conducente ha spento il motore e aperto la portiera. Il vetro della cabina e gli occhiali che portava mi avevano fatto credere che fosse un uomo di mezza età. Invece era poco più di un ragazzo. Gli ho chiesto se era stato lui a tagliare la vegetazione anche lungo la riva. E alla sua risposta affermativa gli ho chiesto come mai aveva risparmiato il cespuglio di rose canine. L'ho visto e mi è parso bello, mi ha risposto, e allora gli ho girato attorno. Sì, ho pensato, ha guardato e ha visto e gli è sembrato bello. Ha saputo vederlo in mezzo alla sterpaglia che lo avvolgeva e soffocava.
Grazie, gli ho detto. Anche a nome di tutti coloro che passano di qui e gli sono affezionati. Gli ho chiesto come si chiamava e se potevo fargli una foto. Ho in mente di scrivere qualcosa anche su di te e voglio mettere la foto, se non ti dispiace. Si figuri!, mi ha risposto. E' sceso a terra, si è tolto gli occhiali e ha sorriso. Eccolo qui. Che bella faccia! Grazie Roberto!
 (Morale numero due: a farle bene e al momento giusto, le deviazioni rendono.)
  

(E già che ci sono, ringrazio la signora che ogni volta che le è possibile, con sacchetti della spazzatura e guanti, ripulisce dei tratti di bordo strada e margini dei prati circostanti. Grazie anche alle donne di via Pirotta che ogni inverno preparano gli addobbi con i quali alla festa del patrono decorano la via in cui abitano, inclusi gli alberi e le case di chi non è in grado di farlo in prima persona. E un grazie postumo, infine, al mio defunto vicino, che passava le giornate con la scopa in mano a spazzare meticolosamente la strada che confina con la sua casa, attento a non tralasciare nemmeno un sassolino, una cicca, o un singolo filo d’erba. Terminato il giro, metteva in un sacco nero le poche cose che aveva ramazzato e riprendeva da capo. Era la forma che aveva preso, in lui, la demenza senile. Una forma civica. Ognuno tragga le conclusioni che vuole.)
 

                                       

02/05/16

Non la incontro mai




Non so perché, ma quando intravvedo sull’altro marciapiede o da lontano mio papà o mio nonno Mario, spariscono quasi subito nella prima traversa o bar, magari dopo avermi gettato uno sguardo veloce, ma più spesso incerto che complice, o si confondono con qualche faccia che più si avvicina e meno mi parla; invece con mia mamma non succederebbe, perché lei, i suoi lineamenti, quella faccia così particolare, è in tutto e per tutto inconfondibile. Forse è per questo che non la incontro mai. Sarebbe troppo indifesa, non potrebbe più andarsene.