15/02/16

Georges Perec, Un uomo che dorme (24-05-1981)



A tredici anni dalla sua apparizione in Francia e a sei dalla sua riduzione cinematografica che ha valso all’autore (in collaborazione con B. Queysanne) il Prix Vigo per la regia, viene ora tradotto nella giovane ma già molto interessante collana di Prosa contemporanea delle edizioni Guanda, Un uomo che dorme di Georges Perec (trad. Maria Pia Tosti Croce, Guanda, 1981).
Romanziere e saggista quarantacinquenne, già autore di una dozzina di opere, Perec si è imposto in Francia, giustamente, come uno degli scrittori più importanti dell’ultimo decennio. Da noi non è ancora molto noto, ma si può prevedere che lo diventerà non appena La vie – mode d’emploi (La vita – Istruzioni per l’uso), voluminoso e notevole romanzo con cui ha vinto il Prix Médicis nel 1978, verrà tradotto. Presto, si dice. Ma è consigliabile cominciare già a conoscerlo con questo bel racconto, anche perché l’unico altro suo libro tradotto (Le cose, Mondadori, 1966) è di difficile reperimento. Sarebbe però inutile parlarne se tutto si limitasse a questo e il libro non avesse qualità su, e numerose, come difatti ha.
Alla vigilia di un importante esame universitario, improvvisamente, senza motivo o preparazione, un giovane ha “l’impressione dolciastra e soffocante di essere senza muscoli e senza ossa, di essere un sacco di gesso in mezzo a sacchi di gesso”, e decide, pur non rinunciando alla vita, di non resisterle e di non adattarvisi più.
Tutto il libro è il racconto di questo progetto impossibile di non avere più progetti, desideri o sogni, di diventare neutro, indifferente, senza significato e senza verità da trasmettere, come un albero o un oggetto. Senza essere pressato dall’esteriorità, ma anche senza tutti quei fastidiosi impulsi che salgono dal corpo e dalla mente a condizionarti, a farti muovere o tendere a qualcosa, persino a disturbarti il sonno con i sogni. Un sonno da svegli insomma, ma a occhi chiusi e senza sogni, come quello che il protagonista indaga, sdraiato sul tavolo della sua minuscola soffitta, all’inizio del racconto.
Appunto come avviene nel sonno, ogni investimento viene ritirato dalla realtà, il corpo è dimenticato o scomparso, e tutto quel che importa ormai è seguire i percorsi e le metamorfosi delle macchie inafferrabili e inespressive, dei filamenti e dei bagliori che la pressione delle palpebre o la luce che esse producono nel buio omogeneo.
Ma non sono tanto le metamorfosi ad assumere valore, quanto piuttosto l’omogeneità, che si allarga poi a permeare anche lo spazio concreto in cui si muove il protagonista: la campagna dove abitano i genitori, ma soprattutto la città in cui vive, una Parigi vampirizzata di ogni senso e spessore, campo livellato di pura contiguità di immagini equivalenti che trovano, più che nella discrezione, nell’elencazione scarna, inqualificata e ossessiva la loro cifra stilistica esatta.
E pura successione diventa anche il tempo, che perde quella ritmicità fatta di discordanze che conferisce la vita, tendenzialmente ridotto a zero dalla sua perdita di valore, non superato da qualche desiderio psicologico o metafisico, dimensioni queste del tutto assenti dal testo e dalla sua scrittura.
Non resta che una parata di gesti, atti, abitudini, luoghi, persone e cose che si risolvono nel loro semplice essere, nell’essere viste o fatte,  che niente nascondono e niente rivelano., né esistenza né storia: puri simulacri. Non “dicono” più, soprattutto, niente: riflessi di cui il protagonista fa parte, o vorrebbe far parte, allo stesso livello di annullamento.
Ma già il “tu” che regge la narrazione (che sia quello del narratore verso il suo personaggio o di quest’ultimo a se stesso non importa, dal momento in cui il primo si è totalmente calato nel secondo), anche se è un “tu” senza passione, disincantato, di pura constatazione, tradisce l’incongruenza della decisione e l’esito della sconfitta. Dire “tu” è già aprire un colloquio, fosse pure con se stesso, instaurare dei soggetti e delle differenze, ciò che mal si combina con la ricerca dell’indifferenza come passione o come metodo. Così il progetto di cancellazione del protagonista è già segnato dall’inizio, dal momento in cui egli comincia a parlare, o a parlarsi.
E se anche, evidentemente, non è certo la consequenzialità logica di un ragionamento astratto ciò che gli interessa, il suo tragitto resta pur sempre quello della dimostrazione di impossibilità già dalle premesse: negarsi completamente alla realtà per assoggettarla, per costringerla finalmente a rivelarsi, la allontana invece sempre di più, ma nel senso opposto a quello che il metodo implicava: “il mondo non si è mosso e tu non sei cambiato. L’indifferenza non ti ha reso differente”.
Il disincanto assoluto non ha portato né alla morte, né alla pazzia e tantomeno a qualche illuminazione o spiraglio di uscita. Il tempo ha continuato a passare e non ha portato quella risposta che forse conosceva. L’intangibilità che il protagonista perseguiva, il rifiuto della storia, è diventata la sua storia, rivelandogli e gettandogli in faccia ciò stesso che, taciuto, incompreso, rimosso, aveva inaugurato la sua avventura: la paura. La paura tipica dell’uomo delle città di essere uguale, che lo aveva portato a eguagliare tutto nell’indifferenza; la paura dell’imprevedibilità del tempo che gli aveva fatto sperare di poterlo annullare. “Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura, aspetti. Aspetti, a place Clichy, che la pioggia smetta di cadere.”

Leggi anche: 
Su Il condottiero e altre pubblicazioni su Perec
Su La vita istruzioni per l'uso









Nessun commento:

Posta un commento