27/11/15

Sì lo sono. 2.0 (versione Siddhartha)


Si narra che Siddhartha avesse un cugino di linea materna che da piccolo gli assomigliava come una goccia d’acqua. L’unica differenza era il carattere, perché questo cugino era sempre ansioso e agitato senza che si riuscisse a capire perché. Poi è andato a abitare in un’altra regione e nessuno ne ha più saputo niente. Finché un giorno ricomparve davanti all’albero sotto le cui smilze fronde Siddharta si era da poco ritirato a meditare, un fico sacro, che sarebbe diventato noto come albero della Bodhi e ora è immenso, mentre a quel tempo a malapena riusciva  a fare ombra a un paio di persone; e appunto per questo Siddharta l’aveva scelto: perché crescesse con lui e le sue idee, se così si possono chiamare, e fosse la crescita a portare ombra, e non avesse una tale consolazione già in sé, ma solo la sua promessa... Come che sia, nessuno osava disturbare quel ragazzotto eccentrico che sembrava imbalsamato e respirava appena, ma quando il cugino, dopo aver tossicchiato un paio di volte, lo chiamò con il nomignolo affettuoso, ma anche un po’ maligno, con cui si interpellavano reciprocamente da piccoli, quello aprì gli occhi e, senza cambiare postura né fare altri movimenti, lo salutò dolcemente e gli chiese qual buon vento lo aveva portato lì e se era sempre inquieto come da bambino. Cercava forse anche lui la pace e l’illuminazione?
Il cugino gli svelò che se era sempre stato così ansioso era perché fin da quei tempi non passava giorno che non si sentisse in dovere di prendersi cura di qualcosa o qualcuno. Non che lo volesse, o addirittura lo cercasse: non poteva farne a meno. Non resisteva. Non era una cura per tutto e per tutti, astratta e indiscriminata, teorica: bastava che qualcuno o qualcosa entrasse nel suo spazio vitale, e già scattava la molla della responsabilità. Che poi spesso (non sempre) non riuscisse a darle uno sbocco concreto, non faceva che aumentare il suo cruccio.
“Smettila di preoccuparti per tutto,” gli disse allora il saggio, ma non ancora illuminato, Siddhartha. “Le cose brutte ci sono. Non è colpa tua se uno perde il lavoro, ha litigato con il fidanzato o la moglie, se non riesce a risolvere un problema, o ha il mal di testa... Non sei tu il responsabile se a me (per dire) le cose non vanno sempre bene o se qualche tuo conoscente, per qualsiasi motivo, soffre. Sii gentile, aiuta, ma per il resto smettila! e vai in pace.”
“Sì, sì, hai ragione,” gli rispose il cugino mentre una piega, senza che lui se ne accorgesse, incideva per un attimo la sua guancia destra. “Lo so anch’io che non sono responsabile. Lo so...” 
Però, dentro di sé, ogni volta che come un mantra se lo ripeteva, sommessa, una voce aggiungeva immediatamente: “Sì, lo sono... Lo sono.”
E nessuno lo vide più.

Qualcuno dice che il sant’uomo apprese qualcosa da questo episodio. Che lo dimenticò per decenni e poi se ne ricordò, come un’eco, una volta che parlava in pubblico raccontando una parabola. Altri sostengono che se ne dimenticò e basta. Che non imparò niente per la semplice ragione che non c’era niente da imparare.




 

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