27/11/15

Sì lo sono. 2.0 (versione Siddhartha)


Si narra che Siddhartha avesse un cugino di linea materna che da piccolo gli assomigliava come una goccia d’acqua. L’unica differenza era il carattere, perché questo cugino era sempre ansioso e agitato senza che si riuscisse a capire perché. Poi è andato a abitare in un’altra regione e nessuno ne ha più saputo niente. Finché un giorno ricomparve davanti all’albero sotto le cui smilze fronde Siddharta si era da poco ritirato a meditare, un fico sacro, che sarebbe diventato noto come albero della Bodhi e ora è immenso, mentre a quel tempo a malapena riusciva  a fare ombra a un paio di persone; e appunto per questo Siddharta l’aveva scelto: perché crescesse con lui e le sue idee, se così si possono chiamare, e fosse la crescita a portare ombra, e non avesse una tale consolazione già in sé, ma solo la sua promessa... Come che sia, nessuno osava disturbare quel ragazzotto eccentrico che sembrava imbalsamato e respirava appena, ma quando il cugino, dopo aver tossicchiato un paio di volte, lo chiamò con il nomignolo affettuoso, ma anche un po’ maligno, con cui si interpellavano reciprocamente da piccoli, quello aprì gli occhi e, senza cambiare postura né fare altri movimenti, lo salutò dolcemente e gli chiese qual buon vento lo aveva portato lì e se era sempre inquieto come da bambino. Cercava forse anche lui la pace e l’illuminazione?
Il cugino gli svelò che se era sempre stato così ansioso era perché fin da quei tempi non passava giorno che non si sentisse in dovere di prendersi cura di qualcosa o qualcuno. Non che lo volesse, o addirittura lo cercasse: non poteva farne a meno. Non resisteva. Non era una cura per tutto e per tutti, astratta e indiscriminata, teorica: bastava che qualcuno o qualcosa entrasse nel suo spazio vitale, e già scattava la molla della responsabilità. Che poi spesso (non sempre) non riuscisse a darle uno sbocco concreto, non faceva che aumentare il suo cruccio.
“Smettila di preoccuparti per tutto,” gli disse allora il saggio, ma non ancora illuminato, Siddhartha. “Le cose brutte ci sono. Non è colpa tua se uno perde il lavoro, ha litigato con il fidanzato o la moglie, se non riesce a risolvere un problema, o ha il mal di testa... Non sei tu il responsabile se a me (per dire) le cose non vanno sempre bene o se qualche tuo conoscente, per qualsiasi motivo, soffre. Sii gentile, aiuta, ma per il resto smettila! e vai in pace.”
“Sì, sì, hai ragione,” gli rispose il cugino mentre una piega, senza che lui se ne accorgesse, incideva per un attimo la sua guancia destra. “Lo so anch’io che non sono responsabile. Lo so...” 
Però, dentro di sé, ogni volta che come un mantra se lo ripeteva, sommessa, una voce aggiungeva immediatamente: “Sì, lo sono... Lo sono.”
E nessuno lo vide più.

Qualcuno dice che il sant’uomo apprese qualcosa da questo episodio. Che lo dimenticò per decenni e poi se ne ricordò, come un’eco, una volta che parlava in pubblico raccontando una parabola. Altri sostengono che se ne dimenticò e basta. Che non imparò niente per la semplice ragione che non c’era niente da imparare.




 

26/11/15

Sì, lo sono





C’è questo mio vago conoscente che non passa giorno che non si senta in dovere di prendersi cura di qualcosa o qualcuno. Non che lo voglia, o addirittura lo cerchi: non può farne a meno. Non resiste.  Non è una cura per tutto e per tutti, astratta, indiscriminata (teorica): basta che qualcuno o qualcosa entri nel suo spazio vitale, e già scatta la molla della responsabilità. Anche qualcosa di elementare, una bazzecola, un gesto. Roba così. Che poi spesso (non sempre) non riesca a darle uno sbocco concreto, non fa che aumentare il suo cruccio.
“Smettila di preoccuparti per tutto,” gli ho detto più di una volta. “Le cose brutte ci sono. Non è colpa tua se uno perde il lavoro, ha litigato con il fidanzato o la moglie, se non riesce a risolvere un problema, o ha il mal di testa... Non sei tu il responsabile se a me le cose non vanno sempre bene o se qualche tuo conoscente, per qualsiasi motivo, soffre. Smettila!”
“Sì, sì, hai ragione,” risponde lui. “Lo so anch’io. Lo so...”
Però, dentro di sé, sommesso, aggiunge: “Sì, lo sono... Lo sono.”


Vedi anche Sì, lo sono. 2.0 (Versione Siddartha).


23/11/15

Tango dello schiacciasassi





C’è questo mio amico che i primi tempi che frequentava la scuola di ballo (ma anche dopo, a lungo), quando andava a passeggiare lungo il naviglio, su quel bello sterrato ampio e liscio tra Groppello e Vaprio, si metteva le cuffie alle orecchie e se c’era una musica che lo ispirava e non troppo traffico sul percorso, si metteva a ballare da solo, per consolidare i passi appena imparati e aggiungere qualche nuova variante che annotava mentalmente guardando quelli bravi, a scuola o nelle balere che aveva da poco, a sessant’anni, cominciato a frequentare. Un giorno, vicino all’ingresso della diga dell’Italcementi, dove c’è un ampio spiazzo che sembra una pista da ballo tanto il terreno è piatto e liscio, sente, oltre le cuffie, uno che gli grida: “ma non si fa così!”. Alza gli occhi e vede un enorme schiacciasassi, con un rullo alto più di due metri, che sbuffa vicino al cancello e un tizio in canottiera, con le braccia tatuate e una panzone di mezzo metro di raggio, che dalla cabina torna a gridare: “quel passo è sbagliato! tutta la sequenza!”. Il mio amico si toglie le cuffie e lo guarda; quello spegne il motore, salta giù dal bestione e, dopo essersi fatto dare l’mp3, gli dice: “aspetta che ti faccio vedere io... stai attento!” e senza frapporre indugi si mette a ballare con una tale grazia e una leggerezza da lasciare il principiante a bocca aperta. Un passo, un altro, e poi una, due, tre varianti, intere sequenze che invita a ripetere, correggendo gli errori di movimento e di ritmo, con pazienza. “Aspetta, faccio io la ballerina, così ti faccio vedere meglio...” e senza aspettare l’assenso del partner riluttante al contatto con la prominenza macchiata della canottiera e la pelle velata di sudore, lo prende per una mano, gli mette l’altra al fianco e, scandendo il tempo, riprende a ballare.
“Ma tu chi sei?”, gli fa il mio amico attento a eseguire correttamente i movimenti e a non finire sotto i suoi scarponi antinfortunistici. “Come fai a conoscere tutti questi passi?”
“Pòta,” gli dice quello mentre volteggia, “sono maestro di tango, io!”


21/11/15

Scoperte



Stamattina ho fatto una scoperta: ho scoperto che mi piace scoprire l'acqua calda.
Ma allora, stamattina, le scoperte sono due!
O tre: ho scoperto che ho scoperto che mi piace scoprire... e così via: quattro, cinque; sempre più vuote, infinite, infinite come il vuoto, vuote come l'infinito...
(Una delle citazioni in cui mi imbatto più spesso di questi tempi è quella di Nietzsche sullo scrutare l'abisso e esserne scrutati ecc.: come se ci fosse qualcosa da vedere. A sentirla, invece di qualche riflessione abissale, mi viene in mente solo un'immagine, un'immagine vuota, sulla riflessione però: quella di due niente speculari, che si riflettono e si con-fondono, senza capire la reciproca differenza, e spesso senza che ce ne sia...)
Ma torniamo alla prima scoperta, quella che mi ha fatto scoprire che mi piace scoprire l'acqua calda.
Stamattina dovevo scrivere una cosa, anzi due, che rimando da tempo; anzi, da cui rifuggo da tempo: qualcosa da cui continuo a sfuggire come se fosse sgradevole, che mi raggela, o come si rifugge da un amore infelice (al quale però il pensiero ritorna sempre, – finché non lo dimentica), anche se nessuna di queste due cose da scrivere mi raggela o assomiglia a un amore infelice. (Ma allora perché le ho paragonate? perché assomiglia momentaneamente l'effetto.)
Non so perché non mi decido a metterci mano per chiuderle; è già tutto scritto: appunti, scheletro formale, struttura dell'argomentazione... ma non mi decido a dargli la forma finale. Non mi convince il tono, forse. Forse non ho ancora la nota, non la trovo: la voce ondeggia, imbocca strade che subito abbandona, abbozza solfeggi per saggiare, non si sa mai... ma l'orecchio latita, il respiro non si accorda.
Allora sono uscito a camminare. Volevo andare più tardi, una volta scritto: ma niente, meglio uscire subito. Appena fuori casa, ho visto due signori con due giacche a strisce arancione catarifrangenti, segnaletiche, camminare lungo l'inferriata di quella che una volta era casa mia, a una decina di metri l'uno dall'altro, sul lato sinistro della strada, contromano, uniti l'uno all'altro da una lunga corda bianca.
Ogni volta che ci arrivo di fronte, cioè almeno due volte al giorno, vedo solo lo scempio che sta al posto di casa mia, e, sopra, il vuoto che mi ha lasciato, che abbiamo prodotto non essendo stati capaci di proteggerla. Il resto lo vedo dopo, se lo vedo.
Così, per esempio, oggi la corda l'ho vista dopo; e solo in un terzo momento ho visto che a tenerla, a tenderla in alcuni punti ma lasciandola molle, lasca, in altri, era un gruppetto di sette o otto bambini.
Fermo allo stop, con nessuno alle spalle che mi spingeva a partire (a entrare nell'abisso), ho guardato la fila dei bambini che procedeva irregolare, un po' ondeggiante, uno che si voltava, l'altra che rideva, e i due uomini ai capi della corda, e, sorpreso, mi è scesa dentro, nel vuoto dentro, una tenue dolcezza.
Ecco: mi si è scaldato il cuore, e la giornata ha preso subito un'altra piega. Buona.


Credo che sia una cosa diffusa. Chiederò a Achille, che era il capocordata, come si chiama questa iniziativa e quanti vi aderiscono. Poi mi è venuto in mente che ho visto anche i cartelli, per il paese. Sì, ho controllato: scandiscono le fermate del percorso con il relativo orario (8,10... 8,13), il colore della linea (quella delle mie parti è arancione; lungo la provinciale è viola) e un fumetto che richiama il nome dell'iniziativa, Il Millepiedi.
In queste vie c'è la fermata dello scuolabus; se passa anche Il Millepiedi  significa che ci sono ancora dei genitori intelligenti che fanno camminare i figli, che non vedono pericoli a ogni angolo, che si fidano di persone magari sconosciute e non temono che i figli prendano freddo o si accaldino troppo. Ma significa anche che ci sono degli adulti che si offrono per accompagnarli. Quanti sono, gli uni e gli altri? È più alta la richiesta degli uni o la disponibilità degli altri? Da quanto è in funzione il servizio? Mi informerò, ma al momento non mi sembra così importante. Lo è che Il Millepiedi esista e funzioni bene.



Poi, più avanti, arrivato al fiume, sono entrato nel regno della rugiada. Le sponde in ferro e le traversine di legno del ponte, le foglie che le coprivano a tratti, era tutte umide; la guazza, fitta, era sospesa sull'acqua e si condensava, cioè sembrava più densa, in lontananza; ma non mi sono soffermato a ammirare, come faccio di solito; ero impaziente di giungere al prato che si affaccia sul canale poco prima del ponticello dell'Adda vecchia. Lì, ieri, mi aveva colpito la rifrazione della luce radente sull'erba nel punto in cui il terreno si ingobbisce. Avrei voluto fotografarlo, ma non avevo la macchinetta. Così l'ho portata oggi, ma non era lo stesso: il sole era già più alto, la luce cadeva e non tagliava; era già diffusa, e soffusa a causa dell'umidità, anche se un po' di angolazione restava.
Ho fotografato lo stesso. E mentre mi piegavo sulle ginocchia per accorpare in un'unica massa i riflessi della rugiada ho visto le ragnatele. Ragnatele di rugiada; cioè, più correttamente, ragnatele che la rugiada rendeva più visibili e faceva brillare, come se le disegnasse, e insieme evidenziasse tutta la mappatura, la cartografia che le regnatele disegnavano sul prato, giù fino la riva, tese tra filo e filo d'erba, tante, quante non ne avevo mai notato prima, quante nemmeno immaginavo che ce ne potessero essere in uno spazio tutto
sommato così esiguo. La rugiada le metteva in evidenza. In un primo momento ho pensato che fosse la rugiada, da sola, a tracciare percorsi da uno stelo all'altro, a intrecciare catene di gocce collegate da fili invisibili. A stendere passaggi sull'abisso dall'uno all'altro; piccole reti sul vuoto che l'erba fitta nasconde. Brillanti. Fragili, ma su cui si può camminare. O cadere, se si perde l'equilibrio. Magari tengono.

(Ecco: non volevo scrivere, e di cose da scrivere, come le sorprese, ne ho avuto due.
E questa è la terza.)


11/11/15

Io non esco



Durante i lavori di fognatura per il paese che si sta ingrandendo, hanno scoperto un paio di piccole tombe di epoca romana e la via parallela alla mia è stata chiusa. Di conseguenza il traffico è stato deviato e ora passa di qui. Oltre alle macchine è tutto un viavai di motorini, biciclette e pedoni che si recano sul luogo del ritrovamento e ne approfittano per fare un giro nei paraggi. Spesso sostano sotto il muro di recinzione o davanti al cancello allungando il collo per guardare dentro, inutilmente. Se aprissi l’audio del videocitofono, sentirei chissà quali commenti sulla mia famiglia e sul sottoscritto, fantasie e idiozie varie, ricordi distorti, le immancabili malignità e qualche rimpianto, ma mi astengo dal farlo. Le notizie e i commenti della prima ora sulle tombe e sui reperti rinvenuti mi sono bastati.
Le tombe consistono di pozzetti in mattone disadorno. All’interno sono state trovate alcune anforine lisce e fibbie metalliche di serie. Nient’altro. Forse sono tombe di soldati morti di malattia o delle conseguenze di una ferita mentre passavano di qui. Non si ha notizia di insediamenti romani di rilievo da queste parti, anche se alcune battaglie, di cui una molto importante, sono documentate nella zona. Ma è stata combattuta tre secoli prima del periodo di cui questo tipo di tombe è peculiare. Nei secoli successivi in compenso i disastri si sono infittiti. Una vera fortuna per la storia locale. Molti infatti ne vanno fieri.
La banalità dei reperti e la quasi certa occasionalità delle sepolture non ha comunque impedito di isolare tutta la via, di effettuare sondaggi nei terreni liberi circostanti e, una volta constatato che non c’era nient’altro, di asportare con cura tutti i mattoni e le relative cianfrusaglie e di collocarli provvisoriamente in comune, in attesa di trovare uno spazio dove esporli stabilmente assieme ad altre testimonianze più recenti rinvenute qua e là negli ultimi decenni, in particolare robetta longobarda. La soprintendenza non ha avanzato pretese e ce li ha benignamente lasciati, felice di non doversi addossare altro ciarpame. La cittadinanza è grata: anche noi abbiamo qualcosa da conservare e custodire. Non veniamo dal nulla. E quindi è probabile che non vi siamo destinati.
Qui si conserva tutto, si fa della conservazione un’occupazione che si spera redditizia in futuro. A beneficio di coloro che sistematicamente cancellano la memoria e tutto quanto potrebbe ravvivarla, qui l’intero territorio diventa un gigantesco parco a tema (un parco storico, o della sedicente storia): memoria di tutto, che viene conservato e mostrato accanto a tutto il resto, con scarne notizie e nozioni di riferimento per i visitatori più solerti o con pretese più sofisticate, scarsissimi peraltro se si eccettuano afflitte scolaresche e sfaccendati alla canna del gas.
Se qualcosa affiora – e qualcosa affiora sempre non appena si spolvera un centimetro quadro di superficie, tutto si ferma. Non importa che ciò che si trova sia quasi sempre identico a quanto già c’è e non aggiunga niente a quanto già si sa: importa che quel coccio, quel sasso o quell’oggetto sia stato trovato proprio lì, sia la garanzia che chi è lì c’era già e ha il diritto di starci e che ci può stare con orgoglio, con la dignità smisurata dei millenni e di nobili antenati, anche se siamo tutti straccioni inutili discendenti di schiavi o di altri straccioni altrettanto inutili. Ogni paesino deve avere il suo museo di qualcosa, ogni quartiere la sua bacheca, ogni famiglia il suo reliquiario e, attorno, la cattedrale che ciascuno vuole, o è in grado di costruirgli. Il qualcosa di allora dà consistenza al niente di adesso. La banalità di un resto si trasforma, con la crescita cancerosa del tempo, in un nucleo di significato indicibile per l’oggi: indicibile di fatto, perché non c’è proprio niente da dire. In fondo la gente se ne frega di questi resti, ma ormai non può fare a meno di tenerli, di fingere di attribuire ad essi chissà che valore, perché sa benissimo che si vi rinunciasse, al loro posto resterebbe solo un buco che finirebbe per risucchiare in sé tutte le cose altrettanto insignificanti a cui è invece veramente attaccata.
Ma questo, più che conservare, è solo un altro modo di trasformare; e difatti tutto vi è coinvolto: lo spazio, il paesaggio, la vita. Come la mia casa. Il centro diventa talmente centro da assorbire tutto, e quindi da non essere più il centro di niente. E viceversa l’esterno, risucchiato tutto, e con tanta forza, nell’interno, con altrettanta forza lo muta e lo rivolta come un guanto. Quando tutto è interno, tutto è anche esterno. Allora non resterebbe che uscire. Io però non lo faccio.



(da un romanzo abbandonato)

05/11/15

Yasunari Kawabata, Il lago, 1984



Dopo un periodo di ristagno (con la sola, seppur notevole eccezione di Le canzoni di Narayama, di Shichiro Fuzukawa, ed. Einaudi), sembra essersi aperto un momento favorevole per gli amanti della letteratura giapponese: molti nuovi autori sono stati tradotti (spesso per opera meritevole di editoriale Nuova) e altri già tradotti sono stati ristampati, talvolta con l’aggiunta di nuovi titoli. Tra le tante proposte vale la pena di soffermarsi su Il lago di Yasunari Kawabata, non tanto perché sia il migliore, quanto perché Kawabata, con Mishima e Tanizaki e grazie al premio Nobel ricevuto nel 1968, è stato uno dei promotori della letteratura giapponese in occidente. Il lago non è tra le sue opere più riuscite ma offre comunque, oltre all’occasione di riparlare sul suo autore, molti spunti di interesse.
Il racconto, ambientato nel Giappone del dopoguerra, rievocato di frequente come un basso continuo, è incentrato sulla figura di Ginpei Momoi, un ex insegnante di lettere ossessionato dai propri piedi sgraziati e soggetto alla coazione di inseguire le ragazze che incrocia per strada, come per un’ansia di purezza e di bellezza che proprio la deformità dei suoi piedi innesca. Egli intuisce che non potrà mai appagare quest’ansia, anche perché essa sottende una privazione ben più essenziale, e che i barlumi che ne coglie non appartengono a questo mondo, dal quale pure provengono, ma restano circoscritti alla sfera dell’ideale e del sogno, e sperimenta che, ogniqualvolta tenta di trovare uno sbocco reale, finisce con lo sprofondare sempre più nella sordidezza, propria e del mondo.
Come i colori che intravede dai finestrini del taxi, il mondo si divide in due ed egli è condannato alla parte più fredda e negativa: può bensì sporgersi per cogliere momentaneamente l’altra, ma essa gli è preclusa. Può solo venirgli incontro dal di fuori, ma quando entra in contatto con lui viene a sua volta degradata. Gli inseguimenti producono effetti benefici solo finché l’inseguita non se ne accorge (ma all’ambiguo piacere di inseguire fa riscontro quasi sempre quello di essere inseguita) e Ginpei rinuncia a colmare la distanza, come quando appende di soppiatto la gabbietta di lucciole, nella bellissima scena della festa sul lago, alla cintura di una ragazza. Altrimenti, in fondo all’inseguimento non può che profilarsi la figura della morte, la stessa figura (la morte del padre affogato nel lago e quella presunta di una figlia pure presunta di Ginpei abbandonata ancora in fasce) che ne sta forse alla sorgente. Più che i piedi allora, che ne sono come uno spostamento, sono i fantasmi della morte a perseguitare Ginpei corrodendo progressivamente la sua percezione della realtà, che finisce per mischiarsi inestricabilmente con l’immaginazione, i ricordi, i desideri, le allucinazioni e le fobie.
Sulla sovrapposizione di questi piani Kawabata basa il fluire della narrazione, passando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, secondo linee temporali diverse e in modo che nel loro rincorrersi, richiamarsi e ripetersi, da uno possa nascerne un altro, parallelo, concomitante anche per aspetti in apparenza secondari, e più profondo, come una specie di origine del primo. Si ha però talvolta l’impressione che lo scrittore trovi i vari elementi di volta in volta, quasi per vie casuali. Poi ci si accorge che in qualche modo “fanno sistema”, ma un sistema non perspicuo, enigmatico come il personaggio di cui ripetono insieme le modalità di pensiero e l’incapacità di analisi. Solo che questa incapacità Kawabata pensa bene di colmarla con interventi di narratore onnisciente, con commenti e specificazioni extadiegetiche, senza dubbio chiarificatori per il lettore ma non sempre necessari e talvolta in contraddizione con lo stile dominante del libro e con la sua costruzione: non va a fondo né dell’uno né dell’altro aspetto, cioè.
Il fatto è che, come a tratti sa di psicologia occidentale applicata il personaggio di Ginpei, e anche prescindendo da considerazioni effettistiche (dire una cosa o tacere l’altra ad hoc), è come se Kawabata abbia costruito il suo libro di mano in mano, in modo piuttosto frettoloso e con preoccupazioni strutturali che agendo solo a posteriori risultano forzate e artificiose: troppe sono, ad esempio, le coincidenze e i contatti tra personaggi agenti in sfere e momenti diversi del romanzo.
Ma sono appunto queste preoccupazioni magari eccessive di inquadramento ad indicare, tra le altre cose, quanto sbaglino coloro che parlano di un Kawabata incurante della trama e della caratterizzazione dei personaggi. Non è che manchino gli elementi strutturanti nei suoi romanzi, semplicemente sono spesso situati in luoghi, oggetti, forme e emozioni diverse rispetto alle attese del lettore occidentale. (Basti  pensare allo stupendo esempio di Mille gru, al suo perfetto spostamento di ruoli e personaggi in relazione alla cerimonia del tè e, più specificatamente, ai suoi strumenti, che diventano quasi i veri protagonisti del libro.) Luoghi che nella sensibilità e nell’arte di Kawabata, più che essere legati agli avvenimenti, si traducono immediatamente nel suo stile che ricerca e riprende tradizionali forme poetiche giapponesi e accosta immagini laddove noi siamo portati a instaurare nessi, ma che noi in traduzione (nonostante questa di Lydia Origlia sia al solito ottima) non sempre possiamo cogliere, anche se ce ne rimane, laddove non sono caricati da preoccupazioni estranee, una sensazione diffusa di bellezza, come un’eco.

29-07-1984


Yasunari Kawabata, Il lago, Guanda, Milano, 1984, p. 126, £ 10.000

04/11/15

Biblioteche dreamin'



(Opera di Mariella Bettineschi)


Sognerò la biblioteca universale con il bibliotecario cieco e lo cercherò nei suoi meandri perché mi reciti a memoria, appoggiato al bastone, rivolto al cielo assente, tutti i libri, uno per uno, a partire da quelli scomparsi o dimenticati. Prima di svegliarmi, lui mi suggerirà dei titoli che io correrò a appuntarmi su qualche foglio perché non ho l’abitudine, detestando i sogni, a maggior ragione quando trascritti, di tenere l’occorrente per scrivere sul comodino. Poi, da sveglio cercherò questi libri nel catalogo universale online e scoprirò che esistono e che è possibile averne una copia, cartacea o digitale, o se impossibile troverò l’indirizzo dove recarmi, con le mappe e gli orari esatti, se la voglio leggere di persona, magari in un monastero tibetano, dove mi sorprenderò di non capirci un’acca ma sarò estasiato di sfiorarne la superficie rugosa con i miei sensibilissimi polpastrelli.
Oppure mi accontenterò di sapere che tutti i libri sognati, e anche gli altri, ci sono, che qualcuno li ha catalogati, forse anche letti, o addirittura che sono fuori in prestito. E poche ore dopo, quando sbircerò il volume che sta davanti al signore dalle guance cadenti, da vecchio libertino, che mi siede sempre accanto al vecchio tavolo della biblioteca reale che frequento, mi accorgerò che proprio lui starà studiando uno di essi. Il più prezioso di tutti: non foss’altro che perché sarà qui, davanti a lui, accanto a me, e io lo potrò sbirciare, leggendo sopra la sua spalla, oltre la barriera del suo corpo che metterà di traverso per impedire la mia curiosità importuna, o farò finta di niente e aspetterò quando lui si prenderà una pausa per tirare il volume dalla mia parte, oppure ancora seguirò il debosciato alla macchinetta del caffè e lì lo lascerò di stucco, con l’occhio destro che si contrarrà a piccoli scatti per lo sgomento, e forse la paura, quella, pensa un po’, dell’inatteso, dell’improvvisamente ignoto, chiedendogli di parlarmene con una domanda su un dettaglio secondario, che lui avrà appena letto senza capirci un’acca.
 A quelli che dicono che Dio si nasconde nei dettagli, secondo la sua deplorevole abitudine di giocare a nascondino (finirà col farlo da solo, come il mio amico Gianni che contava, si nascondeva, si cercava e si liberava tutto da solo, - salvo poi tornare stranito a contare, sempre e solo lui, senza capire il perché; Dio invece lo capisco: e ammiro la sua pazienza, di aspettare quando tutti saranno stati presi, e lui, col suo miglior sorriso tenuto in serbo per tutti quegli eoni, potrà finalmente gridare, felice come nessuno è mai stato o mai sarà: Tana libera tutti!, - salvo magari accorgersi, lui come Gianni, che non ci sarà più nessuno da liberare, o, peggio, che nessuno vorrà più essere liberato), a tutti questi zelanti pignoli, si potrebbe ribattere quanto affermava Voltaire: “Maledite i dettagli, la posterità li ignora tutti”. Ma perché aspettare la posterità, se si può cominciare a ignorarli da subito? Molti non si danno neppure la pena di maledirli, dal momento che non se ne sono mai curati, come se non esistessero. Gente che va subito all’essenziale, nel minor tempo possibile, con il minor dispendio di energie, fisiche e intellettuali, possibile.
A costoro i libri non interessano: non solo li disprezzano loro, ma fanno in modo che tutti gli altri seguano il loro esempio, a partire dall’infanzia. Dalla scuola. Prima, anzi, già che ci sono. Tanto qualche servo che li leggerà per loro e gli farà il riassunto lo troveranno sempre, e a tutti gli altri (tutti gli altri servi) risparmieranno ogni fatica dicendogli loro cosa è meglio dire e pensare, a dispetto di tutto e di tutti, in primis dell’evidenza. E se proprio, c’è wikipedia (con tutto il rispetto, come si suol dire). I libri è meglio lasciarli ai dipendenti fidati; gli altri, quelli curiosi, precisi, quelli che hanno tempo da sprecare rincorrendo il dettaglio a spese della comunità, è meglio che si diano una calmata. E se non ci pensano loro, gli diamo un aiutino noi.
Così capiscono come funziona davvero il mondo e come vanno usate le risorse, sempre più scarse per chi non sia noi (o al massimo uno dei nostri). Cominciamo a limitare l’accesso ai testi, a porre ostacoli, poi non aggiorneremo, poi faremo pagare i servizi, e infine li toglieremo del tutto perché antieconomici. Del resto con tutto il sapere e le informazioni che già sono in circolazione e che noi stessi alimentiamo ogni giorno, che bisogno c’è di altro? Quello che offre il mercato basta e avanza. Se qualcosa non serve, si elimina; qualsiasi cosa non serva: qualsiasi cosa non sia utile e non sia serva.
 

Ps. Mi era stato chiesto di scrivere qualcosa sulla decurtazione, per non dire la soppressione dei fondi per l’OPAC SBN una decisione perfettamente in linea con la stupidità di chi ci governa, che vuole che sia condivisa appieno anche dai governati. Io godo da anni esclusivamente dei benefici del servizio di interprestito della provincia di Bergamo (che ha sempre funzionato benissimo e ora è minacciato di una sorte analoga, come molti altri servizi locali), oltre che delle biblioteche cittadine e all’occorrenza di quelle di Milano. In quanto non studioso poco serio non sono un utente dell’OPAC SBN, ma conosco e apprezzo, e a volte addirittura ammiro, varie persone per le quali esso è uno strumento indispensabile di studio e lavoro. E’ uno dei servizi che qualificano la civiltà di una nazione. La sua assenza è indizio di un'arretratezza culturale e economica che in genere chi la patisce desidera superare, e indica una delle strade che deve percorrere per raggiungere la sua maturità civile; la sua restrizione, o addirittura eliminazione, è sintomo inequivocabile di quanto invece una nazione inclini, se già non vi sguazza, verso la barbarie morale e culturale, cioè sociale e umana. Non sono stato in grado di rispondere alla richiesta che mi è stata fatta, mi spiace; mi è venuto solo questo pezzo, che certo non è di grande utilità. Spero di sbagliarmi, almeno un po'. Perché se non ho nessuna causa da servire e in genere diffido di chi lo fa, questo è uno dei casi in cui farei più volentieri un'eccezione.


01/11/15

Al Café de l'Univers




Mi è venuta voglia di fare un salto a Casablanca per starmene anch’io, come i personaggi di L’esteta radicale di Fouad Laroui, intere giornate a cazzeggiare ai tavolini del Café de l’Univers. Dalle mie parti è un’arte troppo involgarita. Persa, direi. Dipenderà dalla materia prima: il mondo davanti agli avventori, il loro cervello. Me ne starei lì beato, una birra in mano e lo sguardo appannato, benevolo, ad ascoltare i discorsi senza fare una piega, sorridendo ogni tanto, quando proprio sarebbe impossibile farne a meno, ma senza dire che rare parole, quanto a me. Poi, nelle ore più calde, entrerei a cercare l’ombra nei locali interni dai muri a gesso e piastrelle colorate, e più tardi uscirei su uno stretto vicolo in salita, pieno di curve, mi perderei nella casba e verso sera sbucherei magari nel ristorante alla fine dell’universo a guardare un altro paesaggio chiedendomi da che parte mi conviene uscire.