20/08/15

Emmanuel Carrère. Fuori e dentro Il regno.




Mi piace Emmanuel Carrère, gli ho dedicato anche un piccolo ebook edito da doppiozero, ma quando è uscito Il Regno e ho letto alcune delle reazioni che ha suscitato in Francia, mi sono chiesto cosa diavolo gli era venuto in mente. Un libro sulle origini del cristianesimo, Paolo di Tarso e Luca, l'autore di uno dei Vangeli era proprio necessario? Reduce da un'educazione cattolica che mi ha marchiato dall'asilo al liceo dai salesiani passando per dieci anni di oratorio, mi sono detto che forse non era il caso di tornare su cose che conosco piuttosto bene. Poi l'ho letto e, pensando anche a un analogo disorientamento dei suoi lettori abituali, ho cercato di riformulare alcune delle domande più frequenti sentite al suo proposito: che tipo di libro è? è un romanzo o cos'altro? come è fatto? si tratta davvero solo dell'ennesimo libro sul cristianesimo e sul conclamato ritorno della religione di tanti movimenti identitari? vale la pena leggerlo? Poi, nel tentare di rispondere, me ne sono nate altre.

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"Le leggi del Regno non sono, non sono mai, leggi morali. Sono leggi della vita, leggi karmiche", afferma Emmanuel Carrère  nel suo ultimo libro; eppure non si sbaglierebbe di molto sostenendo che il suo intento, non nuovissimo ma sempre attuale, è quello di vedere cosa si può salvare del messaggio cristiano una volta constatata la sua eclisse forse inarrestabile come religione nelle moderne società europee, e se in esso si possono rinvenire dei principi utili anche per una morale laica non solo individuale, come Carrère sembra pensare per se stesso, ma collettiva. Anche se, a quanto pare, ogni tentativo di raggiungere qualcosa del genere si è finora risolto o in un fallimento o nella sua, è il caso di usare questa parola, conversione in una nuova forma di religione, con la sua sacralità, i suoi riti, e i suoi pregiudizi e dogmatismi.
Carrère torna alle origini del cristianesimo e alle figure che ne hanno favorito la diffusione dopo la morte di Gesù, per raccontarle a un pubblico che sembra ignorare ormai quasi tutto di quella che è stata la visione dominante della civiltà occidentale, e per cercare di capire come possa credere ancora alle storie inverosimili a proposito del suo fondatore un uomo moderno ormai secolarizzato e disincantato in tutti gli altri aspetti della sua vita.
E lo fa dopo essere passato lui stesso per una conversione che ha segnato profondamente tre anni della sua vita in età già matura, poi rimossi, e come a recuperarli mediante la scrittura di questo libro, pur senza riscattarli, con un'operazione simile a quella che ha dettato tutti i suoi libri recenti, dall'Avversario in poi, dei quali condivide molti temi e approfondisce la riflessione.
Tanto che può scrivere, ora: "Ciò che io chiamo essere cristiano", che è lo stesso "in senso stretto, che essere agnostico", è riconoscere, anche davanti a quello che appare il male o la menzogna assoluta "che non si può sapere" e (quindi...) che ci può essere un'altra possibilità... "Questa possibilità è ciò che si chiama il Cristo e non è per diplomazia che ho detto [a Romand] che ci credevo, o cercavo di crederci. Se il Cristo è questo, posso anche dire che ci credo ancora".

L'obiettivo era anche di capire come era cambiata la sua vita con la conversione e poi con l'abbandono definitivo della fede, e come continuano ad agire in lui le parole di Cristo nonostante questo abbandono. Carrère scrive per capire come delle parole hanno potuto ribaltare la sua vita e come ancora improntino il suo agire. Scrive per cambiare la propria vita, e per agire su quella di chi legge.
La funzione performativa, che appartiene a ogni forma linguistica, in genere non ha un ruolo primario nei romanzi. In quelli di Carrère tuttavia è possibile trovare vari momenti in cui è molto marcata (per es. l'episodio del racconto erotico che la fidanzata deve leggere in treno di La vita come un romanzo russo) e ancor di più lo è in quest'ultimo. La volontà di agire sull'esistenza è peraltro caratteristica del discorso profetico e religioso, che sul linguaggio fonda gran parte della sua efficacia. Carrère, che non rinuncia mai a guardare qualsiasi cosa con lo sguardo dello scrittore, fa anzi derivare la dirompenza delle parole di Cristo dalla loro novità anche espressiva: è per questo che molte di esse continuano ad avere un'importanza fondamentale per lui nonostante non creda più che "rabbi Gesù di Nazareth, il più sovversivo mai vissuto sulla terra" sia figlio di Dio. Del resto erano state proprio delle parole a innescare la sua conversione. Scrive infatti:
"Dietro ogni conversione al cristo, penso che ci sia una frase e che ognuno ha la sua, fatta apposta per lui, che lo aspetta. La mia è stata questa (...): ciò a cui ti abbandoni – Colui a cui ti abbandoni – ti condurrà dove non volevi andare. (...) E io, ciò che volevo più di ogni altra cosa al mondo era proprio questo: essere condotto dove non volevo andare".
Ciò che vale per l'esistenza non è mai disgiunto in Carrère dalla scrittura, che ne è il fulcro, e quindi quanto ne dice dell'una può essere letto anche nella prospettiva dell'altra. Oltre che per la propria esistenza, o per certi particolari suoi momenti, quanto detto in quei versetti non è anche l'auspicio, la molla se non il programma, di chi si mette a scrivere? Non è una possibile definizione della scrittura, e in genere di ogni agire artistico? Non solo, e non tanto, andare dove non si sapeva (questo è facile, quasi automatico), ma proprio dove non si voleva, per quanto doloroso possa rivelarsi.
Non si sa a chi ci si abbandona: possono essere le voci silenziose, presenti e dimenticate, di tutti coloro che abbiamo sentito o letto, di tutto ciò che abbiamo visto o fatto e che si è in qualche modo abbarbicato o mescolato o camuffato nelle lingue da cui siamo circondati, nutriti e perseguitati. Non si sa mai dove si arriva quando si comincia a scrivere, e a volte il dolore è la faccia nascosta dello scoperta, il lato in ombra dello stupore che ci coglie mentre camminiamo e, alla fine del percorso, il suggello che non è stato inutile, della sua necessità fino a un momento prima ignorata.

Vale anche per il lettore? Meno di quanto di sarebbe aspettato. Il regno infatti è stata una lettura di volta in volta affascinante, profonda, curiosa, istruttiva e persino, a tratti, divertente, ma mai, duole dirlo, entusiasmante: mai, leggendo, mi è venuto di pensare "Ah!" o di alzare la testa, o appoggiare il libro sul tavolo o le ginocchia per guardarmi attorno spaesato, con l’occhio che non vede niente perché tutto è annebbiato dallo stupore, che poi lentamente si dirada e, prima di indurre a tornare alla lettura, lascia vedere le cose attorno uguali e, sia pure di un grado, fuori asse, scontornate, e spostate in diverse costellazioni. E nemmeno è stata una lettura respingente o che ha suscitato intenso disagio, che sarebbe un altro indizio che era stato toccato qualche punto vivo, come era accaduto con i libri precedenti (praticamente tutti da La settimana bianca a Vite che non sono la mia): piuttosto a volte un po' fiacca, e a tratti indisponente per la facilità di alcuni passaggi e per tutto il ventaglio di blandizie lanciate in ogni direzione per blandire (meglio: affascinare, perché non sono quasi mai troppo scoperte o volgari) quanti più lettori: il che, mi dicono, è sintomo di una certa ansia.

La ricchezza della materia, la varietà dei modi e delle prospettive in cui è organizzata e il grande mestiere (sia detto senza alcuna sfumatura restrittiva) che traspare in ogni pagina del libro, rendono comunque la lettura sempre profittevole, se non sempre coinvolgente. I temi affrontati sono di notevole peso e proprio questo induce a concentrare l'attenzione su di essi, verso i quali infatti convergono la maggior parte delle critiche, vuoi sotto forma di accuse di errori o superficialità, o per avanzare integrazioni e sfumature e tutto il repertorio di chi vuole togliere a ciò che gli altri lodano, o aggiungere a ciò che non ci si può esimere dal lodare. Va bene. Però così si evidenziano i temi toccati, ma non si vede il toccare.
Religione, teologia, ricostruzione storica, riflessioni morali e politiche, scavo interiore, confessione, biografia immaginaria,  profondità e banalità, erudizione e approssimazione sono tutti elementi di una certa rilevanza, la cui numerosa e non episodica presenza già dice delle ambizioni del libro, anche se da sola ovviamente non basta a determinarne le qualità. La sua peculiarità infatti è data dalla molteplicità e varietà dei modi in cui sono combinati e intrecciati tra di loro, tanto da determinare le reciproche modalità di porsi influendo a vario titolo sugli sviluppi e le direzioni di ciascuna delle linee, curvandole, interrompendole o sfilacciandole ovvero sovrapponendole e confondendole. E' forse utile, allora, cercare di districare le principali componenti del libro e i loro livelli, sia pure a rischio di semplificazione:

1 – Storia (documentaria, congetturale e romanzata: né peplum, né romanzo storico però) delle origini del cristianesimo: in particolare della figura e dell'apostolato di Paolo,  - delle prime comunità da lui fondate e dei contrasti con quelle legate a Gerusalemme e agli apostoli, più tradizionaliste -, e di Luca, visto come autore di buona parte degli Atti degli apostoli e di alcune delle invenzioni narrative e morali più alte del Vangelo che porta il suo nome.
2 – a) Storia della scrittura del libro; metanarrazione; saggismo; riflessione sulla scrittura nel suo farsi e come chiave per interpretare quella di Luca e dargli forma coerente di personaggio e autore (narratore: collega), avventurandosi nei dettagli degli eventi a cui avrebbe assistito o di cui avrebbe avuto notizia da testimoni diretti, dei loro protagonisti e della cronaca della loro quotidianità (vera e presunta) rapportandoli alla "grande" e "documentata" Storia, quella della Roma imperiale del primo secolo.
3 – Storia personale di Emmanuel Carrère, uno e trino: giovinezza inquieta ma anche, all'esterno, spavalda, anticonformista e cinica; crisi famigliare e artistica, conversione e fase acuta della fede (durata tre anni, dal 1990 al 1993, come la predicazione di Cristo, in cui ha quotidianamente commentato il Vangelo di Giovanni riempiendo una ventina di quaderni, ha assistito alla messa comunicandosi quotidianamente, si è sposato e ha fatto battezzare i figli con nomi che gli rinfacciano tuttora, ecc.); rimozione del periodo, morte della memoria e resurrezione alla vita del narratore (del personaggio-autore),
4 – che approda infine al recupero di quella porzione di memoria che era stata rimossa e infine a questo libro che, nell’andirivieni temporale tra l'allora delle fede e l'oggi della scrittura, include la narrazione della sua esistenza attuale e il dialogo con il lettore (implicito e esplicito).
5 – Rimescolamento di tutti questi ingredienti attraverso continui raffronti e esemplificazioni e i continui ribaltamenti dei piani temporali: storici (20 secoli fa, passato recente – in particolare XX secolo con la sua storia politica, con riferimento privilegiato a quella russa, già oggetto altri suoi libri, oltre che di quelli di sua madre, storica e accademica di Francia – e oggi) e personali (dal 1990 al presente: amori, figli e vita privata in genere; ma più di tutto l'amicizia con lo studioso del buddismo Hervé, lui pure figlioccio della madrina Jacqueline che aveva favorito la conversione dello scrittore: due delle figure di maggio impatto di tutto il libro).


Il regno si presenta quindi come un testo ibrido, ma meno nel senso che mette insieme materiali e forme di diversa provenienza, che per il fatto di muoversi ai limiti di queste eterogeneità, di percorrerne i confini, passando senza soluzione di continuità da una parte all'altra, sino a cancellarli, ma senza indulgere a facili confusioni. E' infatti costruito con estrema perizia grazie ad alcune procedure stilistiche e tematiche che ne assicurano l'unitarietà e la coerenza.
Oltre a quella determinata dal tono del discorso, variato e modulato quanto si vuole ma piuttosto omogeneo, e dal filo rosso della riflessione sullo scrivere e sulla letteratura (come vengono presentati gli Atti degli apostoli e gli stessi Vangeli), il principale dei collanti che tengono assieme tutto e gli conferiscono unità è l'insistenza del tema della verità: la verità (e la necessità) dell'impulso che ha spinto Carrère a scrivere di questi argomenti; la veridicità della ricostruzione dei fatti narrati, o almeno la loro grande plausibilità, dichiarata e motivata esplicitamente in assenza di documentazione; e la completa, quasi spudorata, sincerità quanto alla propria esperienza, dai sentimenti alle relazioni personali più intime.
Thomas Bernhard ha scritto che "ogni volontà di verità è [...] la via più rapida per la falsificazione e per la contraffazione di un fatto",  "ciò che è reale è sempre in realtà diverso, è il contrario che in realtà è sempre reale [...] alla fine quello che importa è soltanto il contenuto di verità di una menzogna". Parole condivise da molti, ma che immagino Carrère rifiuterebbe di sottoscrivere, almeno quanto ai suoi ultimi libri: il suo discorso tende sempre infatti a convincere il lettore della verità passo per passo di ciò che dice, di cui dichiara ogni volta lo statuto: che creda che è vero quando dice che è vero, e che lo è anche quando dice che non è vero alla lettera, ma in qualche altro modo: che lui pure "senta" la verità dell'accento anche nell'invenzione e riconosca le marche stilistiche che le conferisco flagranza, o adotti lui pure come guida il "criterio dell'imbarazzo", secondo il quale quando una cosa dovrebbe essere imbarazzante per chi la scrive, è molto probabile che sia vera,  ecc. La verità è nel linguaggio: nel suo modo di darsi, nella sua novità e in un certo suo tono che si impone fuor di ogni dubbio.
Per esempio, della parola di Cristo Carrère scrive: "anche senza credere [alla resurrezione] se esiste una bussola per sapere in qualsiasi momento della vita se si è sulla strada giusta o sbagliata, è questa". "Ciò che dice Gesù è il contrario [degli scrittori e degli storici del tempo, del loro modo di dire e di far parlare i personaggi]: naturale, lapidari, completamente imprevedibile e allo stesso tempo completamente identificabile. Quel modo di maneggiare il linguaggio non ha equivalenti storici" e proprio da questo scaturisce la sua intatta efficacia.
Carrère insomma, da scrittore, trova l'accento di verità, la capacità di colpire e di andare a fondo, nella straordinaria novità del linguaggio di Gesù. Per dire le cose inaudite che ha detto, Gesù ha dovuto dare una inaudita torsione al linguaggio che era in uso nel suo tempo. Così forte che ancora oggi, per quanto soprattutto la cultura occidentale sembri averci fatto l'orecchio, non ha cessato la sua carica sconvolgente: cioè non ha esaurito la sua novità.

L’altro, e più fondamentale legante è dato da “Emmanuel Carrère” autore-narratore-personaggio, cioè da colui che dissemina di “io” tutte le pagine, dalla prima all’ultima, con gran dispitto di tutti coloro che non perdono occasione per gridare al narcisismo e scagliarsi contro il calderone dell’autofiction. Personalmente, a me non dà fastidio la ricorrenza del pronome di prima persona singolare (molto più fitta in francese dal momento che nei verbi è obbligatoria: il che forse aiuta a spiegare un po’ della vera o presunta prosopopea transalpina) che a volte alcuni, oltre a trovarla eccessiva, hanno la bella idea di ritorcere persino contro l’aspirazione, scettico-ma-possibilista quanto si vuole ma comunque sacrosanta, all’ingresso nel Regno (dei cieli), ricordando che chi si innalza sarà abbassato, e peggio ancora chi di abbassarsi fa solo le mosse.
La sua onnipresenza invece è il perno della strategia di Carrère: il soggetto dell’enunciazione (e dell’enunciato) è il filtro e la pietra di paragone a cui tutto si rapporta. Tutto qui. Se qualcosa c’è di sgradevole non è nella figura complessiva che il soggetto viene a comporre, ma in certe sue sfaccettature, che nelle persone reali diremmo del loro carattere, mentre nel testo, sono relative all'uso e agli obiettivi presi di mira (inclusa l’idea implicita di coloro che da queste strategie sono presi di mira; cioè i lettori).
Del resto lo afferma esplicitamente (polemicamente, quindi) lui stesso: non solo di vivere nel "culto e nella cura perpetua della (propria) persona", ma di crederci “dur comme fer". "Non conosco nient'altro che "io", e credo che questo "io" esiste", dice in contrapposizione a Hervé, che, con pacata saggezza, fa da controcanto alle supponenze e certezze a cui Carrère a volte approda faticosamente e altre indulge un po' superficialmente, recitando la parte dell'avvocato del diavolo dei credenti senza esserlo lui stesso, e proprio per questo, agli occhi di Carrère e ai nostri, in modo credibile.



Ma poiché questo io non è un dato originario della nostra coscienza, ma solo "un'eco, diretta o indiretta, continua o intermittente, delle nostre percezioni passate nelle nostre percezioni presenti" (come diceva già un filosofo dell'800 citato da Nathalie Tresch in un suo saggio) Carrère, che ritiene interrotta questa catena dei ricordi quanto a sé, "tenta di ricostituirla attraverso i suoi romanzi" (ibidem), affrontando in ciascuno di essi uno dei momenti dove si interrompe, o riempiendo i vuoti che la crivellano, in particolare i segreti personali e di famiglia che sono incriptati al loro fondo, con tutto il carico di colpa e vergogna ma anche con tutta l'assunzione di responsabilità che questo comporta. Anche se, nonostante forse Carrère lo creda, la divulgazione e la presa in carico di questo segreto, invece di approdare a qualche verità definitiva, non fa che spostarlo, ricoprendo di un altro strato di detto ciò che resta, al suo centro, nella cripta o ancora sotto di essa, di indicibile e destinato al silenzio. (L'immagine della cripta è tratta dallo splendido libro di N. Abraham e M. Torok L'écorce et le noyau, ma l'interpretazione del segreto è da attribuirsi solo al sottoscritto, via Derrida). Una volta giunti alla cripta e terminato il lavoro di sgombero, il risultato sarebbe sempre provvisorio, quindi; alla fine ci si accorgerebbe di non avere svuotato un bel niente e di avere invece eretto un nuovo edificio con i materiali della rimozione: materiali che si riveleranno poi inesauribili, mentre lo stesso lavoro di scavo e svuotamento finirà per nascondere una cripta e un segreto ulteriori, che esso stesso avrà contribuito a modificare, se non addirittura a creare.


Se si guarda all'argomento Il regno può apparire come un peplum, genere tornato di moda grazie al cinema e alle serie televisive, o un romanzo storico, ma non lo è, non solo perché anziché fare del racconto e quindi del coinvolgimento del lettore la sua priorità, si ingegna in modi sempre diversi a spezzare la storia e spiazzare il lettore, con cui peraltro è in dialogo continuo, ma soprattutto perché con il "il romanzo storico, e a fortiori il peplum" Carrère dice di avere "immediatamente l'impressione di essere dentro Asterix". Infatti confessa di non essere mai riuscito a finire di leggere nemmeno un libro così distante dalle creazioni di Goscinny e Uderzo come le Memorie di Adriano. Il motivo è piuttosto semplice: Marguerite Yourcenar era convinta che in un romanzo storico non deve trasparire neppure la minima ombra proiettata dell'autore; Carrère al contrario crede che sia impossibile evitarlo, e che comunque poi si vedrebbero "le astuzie con cui si cerca di cancellarla e allora tanto vale accettarla e metterla in scena... ". "Gli sguardi nella cinepresa non mi danno nessun fastidio: al contrario li conservo e attiro pure l'attenzione su di essi". Ma allora perché insiste tanto sulla "verità" della masturbazione nelle pagine che dedica al video in cui una giovane donna si dedica a questa pratica encomiabile? Sono certo che Carrère direbbe che non c'è contraddizione: nei porno lo sguardo in camera è sicuro indizio di falsità, di recitazione proprio nel momento in cui l'eccitazione dovrebbe vincerla sul controllo e sull'intenzione: viceversa, quando inventa, lui guarda il lettore negli occhi e gli dice cosa e come inventa: cioè la verità di ciò che sta facendo; non finge di fare altro, come non lo finge la ragazza davanti alla cinepresa piazzata con immagine fissa davanti al suo letto: proprio questa assenza sarebbe, per lui, la certificazione che ciò che viene mostrato non è inscenato né recitato: che sarebbe una vera masturbazione, cioè: la sua verità.
Si torna sempre a questo punto. Come in molti altri suoi libri (Limonov, Philip Dick nella biografia a lui dedicata, Romand, il protagonista di L’avversario, persino il bambino della Settimana bianca), anche i personaggi principali del Regno (Luca, Paolo, Giovanni, Seneca, Flavio Giuseppe, Hervé) sono quasi tutti narratori: scrittori, poeti, storici, raccontatori di storie vere o menzognere, ma per Carrère, pur affascinato dall’invenzione, il problema che ricorre sempre è dove e come riconoscere la verità del dettato, la sincerità della confessione, l’evidenza della realtà dei fatti: dalle marche che forse involontariamente Luca dissemina negli Atti e nel Vangelo, ai video porno, appunto. Da cosa si riconosce l’accento di verità rispetto alla finzione che scimmiotta la realtà; dove l’esibizione delle pieghe e delle piaghe più nascoste dell’anima e la sincerità rispetto all’oggetto non bastano, e il rischio è che davvero tutto diventi più pornografico del video “amatoriale” fatto per il presunto piacere personale dalla giovane donna che vi si ritrae, di cui Carrère indaga i segni della verità come un filologo della masturbazione (o come la masturbazione di un filologo), salvo poi capire, noi, che, al di là della volontà di provocazione (in particolare quando poi fa riferimento a Maria) di fatto proprio lì il narratore, nascondendolo, rivela meglio che altrove il proprio metodo, le procedure e gli obiettivi del suo operare.

“Quando mi raccontano una storia, mi piace sapere chi me la racconta. È per questo che mi piacciono in racconti in prima persona, e io stesso ne scrivo, e non sarei capace di scrivere niente in un altro modo”. Una delle domande rituali del '68 era: "Da dove parli, tu?". Io la trovo sempre pertinente. Per essere toccato da un pensiero, io ho bisogno che sia portato da una voce, che emani da un uomo, che io sappia che percorso essa si è tracciato dentro di lui. (...) Paolo faceva parte degli uomini che non si fanno pregare per dire da dove parlano, cioè per parlare di se stessi, e Luca non ha tardato a conoscere la sua storia, spiazzante quanto i suoi discorsi".


Naturalmente questo continuo ritorno su se stesso e sulla propria scrittura ha anche altre valenze, non ultima quella di agire come apparato difensivo, paranoico la sua parte.
Dopo avergli parlato della raccomandazione di Paolo di non credergli se in futuro avesse rinnegato ciò che aveva sostenuto fino allora (lettera ai Galati), e aver segnalato questo passaggio come qualcosa di assolutamente inedito per l’antichità, e piuttosto simile nella sua perfetta paranoia a Dick e Stalin, Carrère riporta questa osservazione di Hervé: “È di te che stai parlando... La cosa che più di tutto temevi quando eri cristiano, era di diventare lo scettico che sei contentissimo di essere oggi”. Ed è risaputo: è soprattutto quando si parla degli altri che si rivela qualcosa di sé; ma Carrère non resiste a farlo notare, come se un difetto di autocoscienza fosse automaticamente un difetto di scrittore, ma soprattutto di uomo: l’esposizione di una debolezza (una vera, non di quelle che sono esibite a vanteria e scandalo degli altri), e dunque di risultare un facile bersaglio per eventuali nemici: automatico perché sarebbe automatico per lui nei loro confronti. Se c’è un punto debole, è scontato che mi attacchino proprio lì; e quindi non solo io li prevengo, ma ne faccio un metodo e un merito: un punto di forza del mio modo di vedere le cose e della scrittura.

Ma questa è anche la grande bravura di Carrère: riportare ogni cosa alla sua vita e/o ad altri aspetti e momenti del libro, alla sua vita come tema del libro e insieme come possibile aggancio all’esperienza e alla vita del lettore, che tende a identificarsi. Così, quando parla delle Lettere a Lucilio, dice: “mi ricorda la mia amicizia con Hervé” e al lettore, tramite Seneca: “parlo con te del male di cui entrambi soffriamo, ti passo le mie ricette, per quel che possono valere”.


La notte dopo l'incontro con Filippo, Carrère, che ha inventato sia il personaggio che la scena, immagina l'esaltazione di Luca per avere conosciuto un uomo che aveva incontrato di persona Gesù. "Ciò che mi permette di immaginarla, sono i momenti in cui un libro mi è stato dato. (...) impressione di evidenza assoluta. Ero stato testimone di qualcosa che doveva essere raccontato, spettava a me, e a nessun altro, il compito di raccontarlo".
È il meccanismo della proiezione, che gli permette di certificare la legittimità dell'invenzione, la verità di un'ipotesi anche non dimostrata o la realtà di un fatto anche non documentato: lo so perché mi è capitato qualcosa di analogo, ovvero, è lo stesso, perché una stessa forza mi ha afferrato, una stessa evidenza mi si è imposta. Qualcosa di non molto lontano dalla fede, insomma; qualcosa che permette di compiere salti logici con l'innocenza della buonafede (appunto). Qualcosa che farebbe acqua da ogni parte, non fosse che anche il lettore, una volta o l'altra, ha fatto esperienze analoghe (niente di teorico o astratto: di molto concreto, anzi, una percezione, un'emozione, una situazione, un fatto...): il che gli permette di non fare resistenza alla versione di Carrère e quindi, tramite questa doppia immedesimazione, di accettare la plausibilità di ciò che dice, di adottarla e farla propria: cioè di credere alla sua verità e di abbandonarsi a quanto di buono e consolatorio il suo libro possa contenere. Di non rifiutarsi alla forza delle parole di Paolo e alle verità sconvolgente di quelle di Cristo, figlio di dio o "semplice" profeta, di cui però senza Paolo si sarebbe forse persa la memoria come è avvenuto per i tanti altri che popolavano il medioriente in quel periodo, e di lasciare uno spiraglio aperto alla profezia del Regno, perché è vero che, come sostiene Carrère, non è tanto dell'altro mondo quanto di questo, della vita e non di dopo la morte, però, insomma, magari... Perché si fa sempre fatica a pensare alla propria morte come a una scomparsa davvero definitiva, come il passaggio, che non saremo noi a compiere ma avverrà da sé, a un prosaico nulla, un nulla totale, senza residui, nemmeno quello patetico della dispersione dei nostri atomi nell'aria, in un fiume o in una foglia di cicoria. Qualsiasi alternativa, per quanto ipotetica, irreale, è più consolante, più poetica. E chi se ne vorrà mai privare? Pensarci così, in un modo piano, senza drammi, è facile solo da lontano. O anche da vicinissimo (come se non lo fossimo sempre), eccetto quando se ne percepisce, in un lampo di consapevolezza, l'imminenza.
Ma prima, i classici esempi, nobili e disillusi, di Seneca che convoca gli amici dopo essersi tagliato le vene (con un rituale piuttosto atroce, in realtà, dal momento che la morte ha fatto le bizze e necessitato di ferite supplementari e di una lunga e penosa attesa di cui Carrère, che ama smitizzare, non risparmia al lettore nemmeno un passaggio, inclusa l'ironia sul fallimento dell'analogo tentativo della moglie: perché alle donne piace giusto inscenarli, i suicidi, tanto che l'errore è solo quando vanno in porto...), e di tanti filosofi e eroi antichi e moderni, consolano, e fanno invidia; al pari di quelle morti serene, capolavori del futuro anteriore – dell'immagine che si vuole sia ricordata: il nobilissimo monito ai sopravvissuti più forti o inclini a dimenticare; per i più deboli, il precedente agghiacciante invece –, circondati da figli e nipoti, chi li ha, o circonfusi di qualche speranza, avvolti dalla sua tenue radianza, sbirciando la fessura della porta che, in fondo, non si è voluto chiudere del tutto, anche quando si credeva di averla piombata e sigillata, caso mai filtri una lucina, un barbaglio... be', a tutti costoro, e anche alla miriade di altri meno saggi o fortunati, Il Regno quella porticina la tiene socchiusa mentre si esibisce nel gesto, più volte ribadito, di chiuderla: e anche i lettori fanno propri i suoi dubbi mentre li respingono, e viceversa dubitano delle sue certezza nell'atto stesso di farle proprie. La debolezza altrui rafforza e consola: poi si può anche, magari, ammirarne la forza, e tutto il resto.

Nel frattempo ci si è riservato il doppio beneficio di vivere senza i fardelli della fede (i “pregiudizi” e i “divieti”: i peccati e le colpe; il cui sentimento tuttavia Carrère non si risparmia quanto ad altri campi, morale soprattutto: e quindi ancora religioso in un certo senso), e quello del rotto della cuffia a cui potersi aggrappare in extremis per una salvezza, che, forse, chissà... Appena prima di trovarsi fuori tempo massimo. “Non so” è la frase che chiude il libro: da considerarsi in tutte le sue valenze.




(Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su doppiozero.com il 30 marzo 2015. Le traduzioni da Le Royaume sono mie.)

19/08/15

Su Michel Houellebecq. "Sottomissione" e altro



La franchezza è la prima virtù di un defunto
Machado de Assis, Memorie postume di Brás Cubas

 
Michel Houellebecq ha sempre giocato sullo scandalo, salvo a volte inciampare nella pietra che lui stesso ha posato, sia sul piano personale delle ripercussioni che le sue prese di posizione hanno provocato nella sua vita privata, sia nella ricezione delle opere. Riscontri delle vendite a parte.  Sottomissione non ha fatto eccezione; semmai ha accentuato gli effetti. Certo questo è stato causato anche da tragici eventi imprevisti, almeno nei tempi e nei modi, ma non certo imprevedibili in assoluto, di cui lo scrittore non ha nessunissima colpa. Sta di fatto che la coincidenza ha proiettato sull'argomento del libro una luce diversa da quella preventivata, e che le letture e il dibattito si siano spostati sull'asse socio-politico, lasciando in secondo piano, o addirittura oscurando tutto il resto.
Se è vero infatti che la vicende narrate sono ambientate in un prossimo futuro che vede un cambiamento di rotta della politica e della società francese sotto la guida di un visionario leader islamico moderato, con tutto ciò che ne deriva in merito all'interpretazione del presente transalpino e per estensione dell'Europa occidentale, è altresì vero che anche Sottomissione, come in genere tutti i romanzi di Houellebecq, è incentrato su altri temi, esistenziali e persino "metafisici", e presenta una struttura di fondo di stampo archetipico. Il libro narra infatti la (solita) storia di una crisi, personale e storica, che prelude a un cambiamento che pur profilandosi come negativo poi si rivelerà non così gramo.
 È la storia di una crisi sociale e religiosa, e di una tentazione, con il leader islamico Ben Abbes e il rettore della Sorbona Rediger nel ruolo dei tentatori suadenti e ragionevoli rispettivamente di parte della società francese e del protagonista, che già dal nome François ne rappresenta in qualche modo il cittadino tipico (l'uomo normalissimo che Houellebecq afferma essere il protagonista di tutte la sue opere, a lui tanto simile e in realtà replica di un “io sperimentale”, per dirla con Kundera, attraverso le cui ricorrenti caratteristiche filtrare le differenti indagini sulla realtà che ogni romanzo affronta). La posta in gioco sono il benessere, la sicurezza e la felicità; la rinuncia, quella all'identità e alla libertà. Il sospetto è che la tentazione, come capita quasi sempre, non sia poi veramente tale, cioè un'irruzione imprevista e un turbamento che sconvolge, ma solo l'esito di una parabola, la conclusione logica di un cambiamento già ampiamente in atto. Tuttavia il fatto che l'agente del cambiamento sia un politico islamico e il narratore-protagonista uno studioso di Joris-Karl Huysmans, uno scrittore che dopo un passato dissoluto, sublimato nel suo capolavoro À rebours, si è clamorosamente convertito al cattolicesimo (come vuole la regola, anche letteraria, dalle eroine di Defoe in poi), e che Houellebecq, oltre alle note posizioni anti-islamiche qui apparentemente (o forse veramente) ribaltate di segno, si sia sempre mostrato radicalmente critico verso l'attuale società occidentale che sarebbe prossima al suicidio, o già suicidata di fatto per aver rinunciato e anzi volontariamente distrutto i capisaldi su cui poggiava, ha pesantemente condizionato le interpretazioni del libro in direzione socio-politica più che letteraria con un eccesso di parzialità, se non di scorrettezza.
La vicenda narrata è ambientata nell’immediato futuro, secondo una costante comune ad altri libri di Houellebecq: dalla Francia tornata rurale, deindustrializzata ma più ancora disneyzzata, meta turistica da cartolina, ripopolata da stranieri extraeuropei che hanno acquistato case e interi villaggi e ora curano con amore le sue regioni tradizionali di La carta e il territorio; all'epoca in l’uomo sarà completamente modificato dalla biologia molecolare di Le particelle elementari; alla presunta imminente “federazione mondiale dominata dagli Stati uniti”, con “la prospettiva di essere dominati da una massa di cretini” di Lanzarote, che resta uno dei suoi lavori migliori; al mondo popolato di cloni di La possibilità di un’isola.
Questa tendenza a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente. La profezia è quindi l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso.

Indubbiamente però Houellebecq qualcosa da dire ce l’ha: più o meno su tutto. E non si fa pregare a comunicarlo. I suoi personaggi  si possono tacciare di vari difetti ma non di reticenza, e infatti raramente si esimono dall’esternare ciò che pensano su questo e quello, o dal diffondersi in analisi, spesso notevoli per acume e arguzia, del mondo circostante e delle sue prospettive, e soprattutto delle proprie esistenze e attività, che interessantissime sempre non sono, invece. È la vita.
Gli elementi fondamentali da cui origina il suo discorso e il nucleo di Sottomissione  si trovano già nei tre libri con cui ha esordito nel 1991, simultaneamente in poesia narrativa e saggistica: in particolare la depressione in Estensione del dominio della lotta e il connesso rifiuto del mondo e della vita, esplicito anche titolo stesso della monografia su H.P. Lovecraft, e soprattutto il postulato potremmo dire fondativo enunciato con chiarezza nel testo di apertura di Restare vivi, non per nulla intitolato “Metodo”: “se il mondo è composto di sofferenza, questo accade perché è, essenzialmente, libero. La sofferenza è la conseguenza inevitabile del libero gioco delle parti del sistema. Dovete saperlo, e dirlo”. Ne consegue che, pur di evitare o ridurre la sofferenza, i più sono disposti a rinunciare alla libertà, in parte o in toto. Come si può facilmente dedurre, non è solo questione di una capitolazione individuale, ma di un problema collettivo: lo dimostrano i dibattiti degli ultimi anni su libertà e/o sicurezza, e, dopo i recenti fatti, su rispetto, capacità di regolamentazione e autocensura responsabile, quanto a sé e per gli altri.


Quasi tutte le storie narrate da Houellebecq, nient’affatto minimalista (ma è anche la misura del suo impegno oltre che della sua ambizione) nonostante siano sempre incentrate su parabole individuali dai tratti costanti, vertono nientemeno che sul destino del mondo e dell’uomo; come se, alla lunga, già non fosse noto: una catastrofe dopo l’altra fino all’estinzione definitiva, che vorrà ben arrivare un giorno o l’altro. Nel far questo però centrano con infallibile precisione alcuni dei nodi più rilevanti e aggrovigliati della nostra società e cercano di districarli (riduzione degli individui a particelle elementari, cinismo, anaffettività, solitudine, turismo sessuale, terrorismo, mercificazione, ennesimo tramonto dell’occidente, crisi dei legami sociali, clonazione, ritorno delle religioni o di loro surrogati). In Sottomissione lo scrittore circoscrive il terreno e focalizza un bersaglio di portata apparentemente minore, anche se la diagnosi, come non è difficile ipotizzare, rimane la stessa: stavolta l’estinzione non riguarda più la specie, e nemmeno l’uomo occidentale, ma più modestamente la Francia, e al suo seguito, implicita ma scontata, anche quella degli staterelli minori del sud dell’Europa che le gravitano attorno (almeno nell’idea dei francesi), pianeti o satelliti che siano, che saranno però redenti, è questa la novità, dall’istituzione di nuovo impero o organismo sovranazionale che unirà tutto il Mediterraneo, che così tornerà ad avere un ruolo di capitale importanza, politica ma anche socio-culturale, civilizzatrice!, nel contesto dei futuri rivolgimenti mondiali. Il sogno di Alessandro, e poi soprattutto della Roma augustea, e ancora di Napoleone (di Hitler no, però, sia chiaro: è contro l’avanzata dell’estrema destra e dei movimenti identitari, infatti, che si forma l’alleanza politica inedita che porterà al cambiamento). Un sogno concepito e realizzato da chi? Da un leader islamico (moderato; anzi: moderatissimo), ma pur sempre (o proprio perché) francese, e che condivide molti dei valori fondamentali in cui si identifica la civiltà transalpina, o occidentale (illuminismo a parte, la bestia nera di Houellebecq, irredimibile e esiziale). O viceversa, detto forse meglio: sognato, concepito, progettato e abilissimamente realizzato da un francese, sia pure islamico (se no il cambiamento dove starebbe?), erede convinto di una tradizione che non intende certo rigettare o cancellare, quanto piuttosto subordinare/integrare, e in tal modo superare e innalzare, in una vera e propria aufhebung (tedesca!) nel suo universalismo religioso, ragionevole se non del tutto razionale, certo più del vecchio credo umanistico e liberistico, origine e causa di tutti i disastri.

Se le premesse culturali e politiche fanno riferimento a elementi macroscopici in buona parte condivisibili, la loro generalizzazione e assolutizzazione nonché il modo in cui vengono tra loro articolati sono ampiamente discutibili: lo sviluppo del discorso storico-politico è ipotizzabile, certo, dal momento che Houellebecq lo ha fatto, ma poco plausibile (percentuali delle votazioni, alleanze, reazioni ai risultati); la transizione viene compressa in qualche scontro sullo sfondo (poca roba e di rapido assorbimento) e per il resto trascurata; il rivolgimento è tratteggiato in modo sbrigativo e sommario e la conclusione  è a dir poco affrettata e schematica, al limite del caricaturale (poche settimane e spariscono le minigonne – ma non i negozi di lingerie sexy, perché la sera le mogli devono accogliere sensualissime oltre che premurose gli stanchi capifamiglia; la Sorbona viene comprata dagli arabi e i professori convertiti riccamente compensati senza che sia poi richiesto loro chissà che tradimenti o distorsioni dei programmi; le strutture economiche private e di stato sono smontate e ricostruite in modo funzionale e con gran beneficio di quasi tutti ecc.). Come dire che o siamo in un pressapochismo dilettantistico (quello delle grandi sintesi che tanto piacciono a chi deve imbastire un articolo o una battuta sui social in quattro e quattr’otto) o che, a dispetto delle apparenze e del cancan mediatico, per quanto tragicamente potenziato dalle stragi recenti, i risvolti profetici non sono poi così fondamentali. Ma se si toglie questo, si dirà, cosa resta del libro? Facile: tutto il resto. Che non è poco.
Tutti questi elementi hanno la credibilità che serve a portare avanti la trama, a motivare le vicende e illustrare le esistenze del protagonista e di alcuni comprimari fungendo da occasione di cambiamenti e da reagenti per far meglio emergere la "vera" condizione loro e, se non di tutta la società, che resta sullo sfondo, di certe classi e categorie (in questo libro i docenti universitari, ridotti a opportunisti più o meno cinici, quando non a mentecatti monomaniaci abbarbicati al loro orticello, alle miserabili piantine ai cui stenti rami manco riescono a appendersi: ciò che sarà anche corretto, in qualche misura, ma che equivarrebbe a sparare sulla croce rossa se il vero bersaglio non fosse una cultura vista come cosa morta già da chi dovrebbe trasmetterla, e di totale irrilevanza per chi ne dovrebbe essere il destinatario non si dice il beneficiario, perché suonerebbe irrisorio).

La tecnica (il giochetto) è risaputa (l’ultimo a parlarne, in modo brillante peraltro, è stato Walter Siti): si prendono personaggi, luoghi, eventi e contesti con le loro belle credenziali “reali”, con nomi, sigle e marchi, della cronaca e dell’uso, e li si introduce in contesti di finzione che sembrano procedere dalle suddette premesse con il maggior rigore possibile (secondo le procedure della scienza in Houellebecq, che su di essa si è formato e ne condivide visione e metodi), onde avvalorarne sviluppi conseguenze e proiezioni, rendendo plausibile anche la distopia più abborracciata, o generica, con una logica che sembrerà inscalfibile e, talvolta fino a lettura ultimata, poco o nulla discutibile. La sospensione dell’incredulità già in atto durante la lettura fa il resto, accentuando l’effetto. Ciò che viene narrato appare così veritiero (reale) dove non lo è, e meno simbolico proprio laddove lo è di più. L’impressione di pertinenza e profondità è accresciuta, assieme alla credibilità di ciò che viene detto o narrato, proprio grazie alla diffusa tonalità quasi da esposizione scientifica, come una fedele trascrizione di dati di osservazione sperimentale, mentre la tensione, anche notevole, che presiede alla scrittura di molti suoi libri resta sottesa, nascosta (non: stemperata) nel dettato che adotta i modi della distanza razionale, del totale controllo, almeno nelle ambizioni. Quanto più l’argomento si riscalda, tanto più la voce si fa ferma e senza inflessioni emotive. È questo uno dei caratteri salienti di Houellebcq, a dire il vero. E così, in quest’ultimo romanzo ancor più che nei precedenti, la lettura procede senza intoppi dall’inizio alla fine. Sin troppo facile, vien da pensare. Si legge talmente bene da indurre in sospetto: una volta assorbite le premesse tutto fila liscio, come una elementare dimostrazione matematica, o l’acqua su un leggero pendio, e non come un destino.


Come molti suoi confratelli houellebecquiani, anche François, il narratore-protagonista di Sottomissione, vive solo, ha storie andate a male alle spalle, genitori odiosi o indifferenti, una vita sociale scarsa o nulla, comportamento sessuale e preferenze in linea con gli standard dello nostro romanziere (e del maschio eterosessuale politicamente scorretto: cioè “naturalmente”, inconfessabilmente ma poi manifestamente, egoista: e quindi represso, scontento e feroce: contro se stesso in mancanza d’altro); mangia cibi precotti, beve molto ma non si droga (a quello ci pensano i personaggi secondari, semmai), odia la società, ovvero, se è in buone, non se ne occupa. “L’umanità non mi interessava, anzi, mi disgustava, gli umani non li reputavo neanche lontanamente miei fratelli”, dice, in un refrain che si può trovare in quasi tutti i suoi libri, a scanso di equivoci. La cronaca lo lascia indifferente, e più ancora la politica: al massimo segue i dibattiti pre-elettorali come puro spettacolo, pareggiato solo dai mondiali di calcio. La sua cifra è sempre di segno negativo: disdegno, disgusto, disprezzo, apatia, ecc. Cionondimeno soffre. (O soffre per questo, se si preferisce: causa o conseguenza che sia; probabilmente entrambe.)

Il suo tratto principale, come in quasi tutti gli altri libri, è la depressione, la solitudine (su cui terminano in modo esplicito vari capitoli), un senso di inutilità che condivide con tutti gli specialisti del nulla che popolano la sua facoltà (letteratura) e quindi per estensione con l’intera disciplina, se non con l’intera civiltà che di essi se ne impipa o si serve solo ai propri fini, per lo più propagandistici (come la Sorbona per i nuovi sponsor-padroni arabi: un fiore all'occhiello, qualcosa che non importa in sé ma per significare o alludere ad altro, come quasi tutto). Il posto di lavoro, se non prestigioso ben retribuito, e il piacere sessuale garantito sono un surrogato, l’equivalente del panem et circenses: la distrazione, il non pensare, il bisogno di una pacificazione che Huysmans e i frati dell'abbazia visitata da François hanno cercato e forse trovato nella vita conventuale – ma non lui –, e che la sottomissione, a ogni livello, in parte garantisce. Uno guardo superficiale dovrebbe bastare a dimostrarlo: lo stereotipo e il contagio mimetico non caratterizzano solo il cosiddetto incolto, il beota televisivo, l’uomo davvero comune che comunque è sempre il primo e privilegiato destinatario di tutto il campionario del peggio e delle privazioni, ma anche la miriade di Charlie e compagnia bella che si trovano tanto bene a stare tutti insieme sotto questo o quello slogan, facendo aggio, se è il caso, anche sulle tragedie, oltre che sui trionfi (tutti innocui: sportivi): dove quello che conta non è tanto la giustezza dell'occasione, come talvolta accade, ma lo stare uniti, il farsi scudo e coraggio e consolazione reciprocamente. Il senso di identità. La sua provvisoria figurina.

E certo sì, è vero che tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria ecc., ma poi a quanto sembra tende a ricompattarsi in un altro modo; e ha un bell’ironizzare l’ateo o l’agnostico sulle religioni oppio dei popoli, e denunciare i loro danni, la corruzione dei sacerdoti, dalla base ai vertici, e il connubio con il potere mondano, sia che lo appoggino sia che vogliano sostituirlo; però, quando uno si trova di fronte a questi imponenti movimenti, a queste masse che si uniscono e fanno forza a vicenda alla luce di un ’verbo’, che se ne infischiano dell’illuminismo o della lucidità vera o presunta di chi esorta a farne a meno, e sono pronti a travolgerli con tutti i mezzi (dall’assimilazione all’eliminazione con tutte le sfumature intermedie), allora la voglia di sorridere passa e bisogna pensare e fare altro. Non è così semplice, sembra dire lo scrittore, pretendere da chi fa fatica a vivere, la fatica supplementare di trovare un senso e un sentimento di appartenenza, così necessario anche a chi vuole distanziarsene, al di fuori delle forme consolidate nel tempo e nelle culture, nelle religioni costituite o in quelle non dichiarate, a volte persino a chi, come Houellebecq stesso (nonostante recenti dichiarazioni facciano intravedere anche qui una specie di ravvedimento) o il protagonista del romanzo, o anche chi qui scrive e forse chi qui legge, non condivide questi bisogni, ma non potrà mai prescindere dalla fragilità e dall’isolamento che in alcune circostanze, forse spesso se non proprio sempre, prova dolorosamente su di sé. E allora ecco affacciarsi “l’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della società umana consista nella sottomissione più assoluta”.

Sottomissione è di queste cose che parla. L’islam, che come è noto significa appunto sottomissione, conta meno: è una scusa, acuta e furba (ma furba perché in parte reale, almeno nel sentimento del buon europeo; ma anche nel senso della furbizia classica: dove c’è sempre qualcuno o qualcosa che la ribalta in stupidità), ma avrebbe potuto essere altro (nel progetto originale del romanzo era la conversione al cattolicesimo: in pratica il ritorno delle religioni provocato dal fallimento della secolarizzazione e dalla impossibilità per il cosiddetto uomo occidentale contemporaneo di reggere le tensioni psichiche e emotive e la violenza reale e potenziale instaurate dal dominio della lotta biologico-evolutiva e dal capitalismo neoliberista che ha ormai pervaso ogni momento e aspetto dell’esistenza, rendendola intollerabile ai più), come altro è per tutti ogni giorno, praticamente ovunque. Nessuno escluso; nemmeno chi qui scrive. La forza del romanzo, al di là dei suoi limiti, consiste anche, se non soprattutto in questo. E deriva dalla capacità della sua scrittura di far apparire verosimile, quasi scontata, l’evoluzione della vicenda personale, ma soprattutto degli eventi storici e sociali una volta accettata la plausibilità delle premesse. Tanto che Houellebecq, come già visto, non si cura nemmeno di seguirne le tappe e meno ancora di affrontare il punto più difficile e delicato: quello del passaggio (il montaggio, l’ellissi, la reticenza, l’implicito: tutto ciò che interrompe e disarticola la continuità narrativa fanno anche questo bel servizio). Autostrade deserte quando il protagonista se ne va da Parigi il giorno delle votazioni, un paio di aree di servizio devastate, tre o quattro morti, finché, quando torna in città qualche giorno dopo, tutto è già compiuto e la routine più o meno tranquilla è ripresa come se niente fosse. Perché di fatto tutto, o quasi, riprende sempre, presto o tardi, come se niente fosse. Quello che è, è. Ci si adatta. Ci si sottomette. Si cerca di assicurarsi del cibo, un riparo, qualche soddisfazione, principalmente la più elementare, il sesso, nel modo migliore e più abbondante possibile. Quanto alla qualità: solo per chi può. Per chi ci tiene di più. I più forti, o adatti, come dice la selezione, nell’“estensione del dominio della lotta”. Gli altri, solo quanto basta perché ci pensino, se ne facciano un cruccio magari, possibilmente non radicale (ci sono i surrogati, per questo) e non pensino ad altro. Soprattutto non a se stessi. Soprattutto se si vuole evitare quelle che ne sarebbero le logiche conseguenze: stress, demotivazione, depressione, inedia (passività, no invece: quella fa comodo), notoriamente dannosissime per la macchina sociale, se generalizzate (gli esempi sono sin troppo facili da trovare). O meglio: soprattutto a se stessi, ma nei modi che la comune sottomissione consiglia e esige. Tranquillità, sicurezza, speranza; un senso; una direzione. In fondo non serve molto.
La vera desolazione (la ferocia forse) del finale del libro, è che è vero.

Al di là della banalizzazione e della tendenziosità che questa sintesi può trasmettere, come del resto avviene per ogni semplificazione anche quando essa è una delle procedure adottate esplicitamente dall’autore (“Per raggiungere lo scopo decisamente filosofico che mi propongo (...) occorre sfrondare. Semplificare. Sterminare uno alla volta dettagli infiniti. Ad aiutarmi ci sarà il semplice gioco del movimento storico”, si legge già in Estensione), Sottomissione è romanzo ricco di azioni, dialoghi e riflessioni, descrizioni di luoghi e situazioni, distribuiti con grande equilibrio e dovizia. Houellebecq è uno scrittore prodigo. La sua abilità di narratore (e sottolineo narratore anche quando eventi e azioni sono ridotti all’osso e restano dietro le quinte invece di essere raccontati direttamente) consiste nel non far percepire questa ricchezza a discapito della fluidità della narrazione e dei dialoghi, nell’evitare di marcare le salienze, di cui si avverte vagamente la consistenza solo dal senso di densità che viene dalla lettura, anche se sul momento non si saprebbe spiegarlo (ammesso che importi). E’ lo stile della dissimulazione nella massima evidenza.
La fluidità è data dall’apparente uniformità del tono, dalla temperatura quasi costantemente fredda che pervade i suoi libri, soprattutto laddove la tentazione del sussulto (emotivo, ironico, moralista...), e con essa quella della blandizie e dell’esibizione di virtuosismo, è più allettante. Poco narcisismo puntuale, insomma, a favore di un narcisismo diffuso, e tanto più forte, che l’impercettibilità rende “naturale”. E sia pure: l’effetto, alla lettura, è di sicuro impatto. Certo ci sono cadute, ma espungere qualche espressione e generalizzare è solo malevolenza. La tenuta complessiva non è al livello dei libri migliori ma è comunque buona, se non ottima.
Delle sporgenze, pointes o altro, definizioni e osservazioni fulminanti, spesso ci si accorge solo dopo, a cose fatte, o a una lettura ravvicinata, rallentando volontariamente il corso che di suo va veloce. Allora la causticità, l’ironia, e persino il sarcasmo a volte si danno a vedere.
Ma anche quando sporgono, l’espressione e il paragone esasperati, estremisti, fanno parte della parte che recita il narratore Houellebecq: sono una cifra stilistica, l’indice di un punto di vista, di una scelta prospettica.
Anche in Sottomissione non mancano battute o allusioni non sempre felici (“già solo la parola umanesimo mi metteva una leggera voglia di vomitare, ma forse erano le focaccine, avevo esagerato pure con quelle; presi un altro bicchiere di Meuersault per farmela passare”: dove, oltre alle focaccine, variante ironica dell'immancabile madeleine proustiana – e va be’ –, c’è anche il Meursault di Camus, da scolare fino in all’ubriacatura; ma non escluderei anche, dato il contesto e certe predilezioni dell’autore, il Meurs saoul: muori ubriaco, se solo fossi più spericolato); del resto non è facile tenere il livello sempre alto, e in genere Houellebecq ci riesce, con quelle osservazioni a latere, o incisi pungenti ma senza cambio di tono o ritmo, perfettamente incastonate nella frase descrittiva o narrativa, più ancora che nelle riflessioni o nei dialoghi dove uno invece se le aspetta, senza alterare la planimetria e l’equilibrio della frase, come se vi facessero naturalmente parte, mentre proprio lì l’intelligenza anche narrativa di Houellebecq si cela, e si rivela, con maggior perizia. Il sarcasmo è esigente. Non tanto verso i destinatari, che non sono controllabili: sono quello che sono e non dipendono da esso; quanto verso colui stesso che lo fa.
Lo so che dire di uno scrittore che è lucidissimo e molto intelligente può suonare anche come un’offesa (meno che se dicessi il contrario, però), ma che ci posso fare: Houellebecq è proprio questa l’idea che dà, fuori di ogni dubbio. E comunque io non la considero un’offesa. Non varrebbe nemmeno la pena di fare queste osservazioni se lui stesso non avesse sempre giocato, in modo palese o velato, come a nascondino, con la propria immagine, recitando apertamente vari ruoli, a volte tanto provocatori e ributtanti da renderlo persino simpatico, senza contare il suo talento. Sotto questo aspetto si inserisce a pieno titolo, e direi con passo trionfante, nel glorioso solco della tradizione dei vecchi Léautaud e Céline, lerci misantropi, ai quali non ha nulla da invidiare nemmeno quanto a bruttezza, da lui coltivata, da sgamato abitante dell’era dei media, con la squisita arte dell’abbrutimento volontario, assecondando con snobismo una certa predisposizione, accentuata dall’età.

                                                             

A proposito di Meursault: l’eccesso di allusioni (non di allegorie), così come la nominazione esplicita di personaggi pubblici, soprattutto politici in Sottomissione, il riferimento giornalistico e a volte scandalistico a cose e eventi privati e pubblici, come a prendersi vendette personali, e a solleticare la propensione alla malignità del lettore (compiacere la meschinità funziona sempre), fanno sospettare che, come per ciò che troppo brilla e viene messo in primissimo piano, la loro funzione principale sia quella di nascondere. Cosa? Magari, approfittando della consuetudine, e persino dell’automatismo al sospetto che l’apparentemente smaliziato lettore occidentale ha ormai introiettato, proprio la superficie, la lettera, così palesemente reazionaria (nel senso anche di emotivamente reattiva al presente; irritata, allergica alla sua insopportabile banalità e stupidità, specie se ammantata di cultura ecc.: il repertorio è noto). E forse allora sì, viene spontaneo accostare Houellebecq a quei reazionari che, lamentando la scomparsa delle illusioni e dei legami del mondo contemporaneo, di fatto contribuiscono a conoscerne meglio la natura (sociale) e a dubitarne ancora di più, cioè a dare una mano a smantellarle.
A rendere necessario più che con altri scrittori il sospetto da parte del lettore è la tonalità prevalentemente assertiva e descrittiva che viene attribuita alla voce narrante, come se si limitasse a mostrare un dato di fatto, qualcosa di non problematico, incontrovertibile (come se il fondo della desolazione favorisse l’oggettività; o viceversa come se l’oggettività non fosse distinguibile dalla desolazione, la lucidità dall’assoluto disincanto). Ma, essendo questo un romanzo e non un saggio o un testo scientifico (e anche qui...), proprio l’aura di fatticità, la serietà e l'impassibilità quasi minerale che sembrano emanare da ogni frase, si traducono in indecidibilità, autorizzando, se non addirittura richiedendo, una lettura ironica, cioè che vi intravede il contrario o qualcosa di molto diverso da ciò che è enunciato. Io, in ogni caso, forse sbagliando, ho letto in questo modo più di un passaggio, di questo come dei suoi libri precedenti, e persino, in una certa misura, anche il senso complessivo (per chi non può fare a meno di cercarne uno): forse a causa dell’implacabilità della prospettiva, se non della diagnosi e dell’autore.

Ma certo questa è la deriva di chi è cresciuto con un piede nel moderno (la scuola del sospetto) e con l’altro nel postmoderno, in quella che Ricardo Piglia chiama la “fiction della paranoia, basata sull’idea che la società sia edificata su un complotto, e che a sua volta sia in atto anche un contro-complotto”; mentre invece Houellebecq sembra pensare e agire (scrivere), in modo del tutto opposto, come una ripresa del romanzo-saggio del modernismo (sul versante Musil e non  su quello Joyce) ma dopo il post-moderno, e dice tutto in modo chiaro: le cose si svolgono sotto gli occhi di tutti, non c’è mistero, solo una logica implacabile, giuste o errate, anzi: buone o cattive (perché il male è sempre presente nei suoi libri, centrale), che esse siano: il fatto indubitabile che la società occidentale, portando alle estreme conseguenze le sue premesse umanistiche e capitalistiche, si sia ormai suicidata e viva in uno stato di prolungata postmorte che abbisogna di un rinnovamento che paradossalmente può venire solo da chi essa percepisce come altri e nemici. In Sottomissione l’islam. Qualcosa non quadra.

Non è certo da narratore avveduto, come Houellebecq  è di sicuro, imprigionarsi in tesi o teorie affermate in modo risoluto e tenute ferme come una parola d’ordine, o di verità (anche se il rischio c’è, e lui non di rado ci marcia). Se nelle dichiarazioni e interviste ne sbandiera questa o quest’altra versione, mi sembra soprattutto una posa, una provocazione, mentre nei romanzi mantiene quasi sempre una forte ambiguità che la sua scrittura senza orpelli, quasi ecfrastica, sia pure meno di cose che di situazioni e contesti, reali e immaginari come se fossero reali, accentua. Le opinioni e riflessioni più radicali sono espresse da personaggi a loro volta ambigui o negativi (cioè i cui lati meno edificanti sono apertamente mostrati e spesso ribaditi), e ancora più spesso da un narratore-personaggio che gioca con la somiglianza con l’autore per confondere meglio le acque, piuttosto che per renderle più cristalline, e risultano quindi di parte, a volte smaccatamente, e di una tale meschinità, di un cinismo così spudoratamente esibito (gente che abita metropoli, intellettuali, artisti, figure popolari dei media, imprenditori, manager: navigati, allegramente depravati e corrotti, con una bella propensione all’alcol e al sesso mercenario o come forma e espressione e conferma di un potere; ma anche impiegati, quadri, gente mediocre, affetta però da disincanto, stressata, tanto ossessivamente razionalista, più che razionale, da aver bisogno dello stordimento ecc.) da rendere improbabile una qualsivoglia adesione dell'autore, e del lettore, alle loro analisi e conclusioni. Soprattutto perché chi è tanto abile a (ri)costruirle e dar loro una certa coerenza e credibilità, in modo tanto lucido e distaccato, è piuttosto difficile che vi aderisca con una qualsiasi forma di fede, sia pure quella, potente, del risentimento, peraltro “necessario a ogni vera creazione artistica” (come già detto in Estensione). Sono quindi da prendere in modo critico, in particolare quando, grazie all’intelligenza e all’efficacia con cui sono espresse, tendono a blandire le propensioni più oscure del lettore, a portare in superficie i nostri lati meglio custoditi, spesso celati persino a noi stessi, ma il cui rumore di fondo a volte avvertiamo, per subito allontanarlo a causa del disagio che suscita, del potere di demolizione interiore che, se non arginato, o anche rimosso, manifesta. Se abbandonarvisi conduce all’orrore, meglio arginarle. Persino rimuoverle (le norme ci sono anche per questo; a meno che, all'orrore, non siano esse a condurre). Meglio conoscerle comunque. Sapere che ci sono e come sono. In questo scrittori come Houellebecq sono fondamentali.




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