28/07/15

Didascalie a "Sonata in mi minore" di Federico De Leonardis (una lettera)




(Una breve premessa: questo testo è una lettera a FDL inclusa nell'edizione Bacacay del suo Didascalie alla "Sonata in mi minore", che è una delle sue opere più belle, che consiste in un album dove venivano raccolti i 33 giri, sulle cui pagine nere, attorno al cerchio vuoto dove avrebbe dovuto comparire l'etichetta dei dischi, come nell'immagine della copertina qui sopra, Federico De Leonardis ha disposto, ritagliate in modo che le teste e i dati di riconoscimento individuali non comparissero, una parte delle foto di famiglia dopo la scomparsa di sua madre, a cui l'opera, intensissima, è dedicata. L'edizione porta la data del 31 dicembre 1995. Non ho più riletto il libro, e la lettera, da allora. )

Per me nella ciambella è prezioso il buco[1]. Ma che fare della pasta? Una ciambella si può inghiottire, ma il buco rimarrà.
O. Mandel’štam, La quarta prosa



Caro Federico,

io dei ricordi preferisco farne a meno. Quando si presentano li allontano, e se talvolta, preso alla sprovvista, distratto da altro, mi accorgo che indugiano nella mia testa in attesa di un pensiero o di un’emozione, declino prontamente l’invito: non ne voglio sapere. Allo stesso modo non faccio progetti. Rifuggo da entrambi come dal dolore, certo per paura e per miopia, la stessa miopia che mi trattiene nel vicino, nell’assolutamente prossimo, fin quasi a coincidervi (e quindi a non saperlo poi discernere). Parliamo del nostro lavoro, — della scrittura quanto a me (e della lettura); della cosiddetta vita non c’è niente da dire, anche ammesso che si sappia cos’è e che ne valga la pena (che cosa sia la mia, l’unico punto di partenza possibile, è chiaro che io lo ignoro, e del resto nemmeno mi interessa).
L’implicazione elegiaca o viceversa disperata che l’irrimediabilità del ricordo di solito comporta, mi infastidisce, e anche fare il punto o tirare bilanci, con la loro pretesa di far quadrare le cose, sia pure per constatare una perdita, sottendono un’ambizione di senso di cui non avverto la necessità. Chiamalo fatalismo, o stupidità: è lo stesso, vorrà dire che sono fatalista o stupido. Piuttosto stupido che fatalista però, perché anche questi affida all’incomprensibile la possibilità, e la capacità, di dare un senso al succedersi di eventi e cose, nella speranza disperata, se mi concedi il gioco di parole, che un senso lo abbiano. Io non ho queste pretese: non me ne vanto, ma neppure me ne rammarico. Le cose sono come sono e basta. In quanto stupido, al massimo mi provocano stupore (il che non mi dispiace, quando succede). Quando non posso fare a meno di indirizzare o di impostare una parte di ciò che faccio o che mi accade, mi trattengo entro un raggio limitato: oltre non vedo e non voglio vedere. Com’ero da piccolo? Come sarò da vecchio? Non lo so e non mi interessa. Cos’ho fatto in quell’occasione e cosa farò in quell’altra? Nient’altro che ciò che ho fatto e che farò. Nessun rimpianto, nessun desiderio retrospettivo e nessuna rassicurazione per felicità che ci sarebbero state (di quelle di cui si dice: almeno loro non mi saranno tolte; le stesse che poi avvelenano, a chi si compiace in questi esercizi, ogni confronto col resto del tempo). Nessuna consolazione. Ma anche nessun eroismo. Non per stoicismo: semplicemente perché non ce n’è bisogno. Il sale del pianto e il miele dei giorni li lascio a chi ha carenze di sodio e glucosio. La mia dieta va benissimo così com’è. Tutti quelli che amo, li amo per come sono, e non per quello che sono stati (anche se ovviamente...); figli non ne ho voluti. Così sia[2].
Non è per questo tuttavia che non ho mai amato la fotografia. E non dico quelle degli album di famiglia o di viaggio (alla curiosità perlomeno non rinuncio): parlo della fotografia artistica, quella che ormai critici, galleristi e compagnia bella sono riusciti a imporre per estendere lo spazio di un mercato in crisi, quella dei cosiddetti grandi fotografi e reporter. Mi è sempre sembrato che la fotografia non fallisce mai nell’ardua impresa di estetizzare tutto, in primo luogo l’atroce. Un’arte dell’800 che si avvale di una tecnica postuma. Un occhio sottratto alla storia dalla credulità nella trasparenza di uno strumento o nella possibilità di dominarlo[3].
E allora perché ho amato subito, alla prima occhiata, la tua Sonata, che di fotografie è composta? Boh; ma forse vale la pena, specie per me, che ci giri un po’ attorno, per vedere se riesco a cavare qualche ragno dal buco.
Quando apro l’album la prima cosa che mi colpisce è l’odore, l’odore della carta, della legatura, della colla e delle fotografie. È un odore forte, sgradevole, l’odore vecchio delle cose che ci sono e non intendono né scomparire né eclissarsi nell’asetticità di una cella frigorifera o nell’indifferenza. Ogni volta che mi avvicino per guardare meglio mi devo ritrarre, perché la sua intensità mi respinge, non via, ma alla giusta distanza, dove ancora ne percepisco l’effluvio ma in modo sopportabile, se non quasi gradevole, e posso continuare a vedere con precisione le immagini, i frammenti e soprattutto l’insieme delle pagina. La giusta distanza è quella che non perde mai di vista l’insieme, è la distanza che da solo non so trovare quasi mai, — io che tendo a perdermi nei particolari e ho la coazione a suddividerli in frammenti sempre più piccoli finché non scompaiono anch’essi —, a meno che non siano le cose stesse a impormela. Una ragione in più per essere loro grato.
La seconda cosa che mi colpisce sono le tracce di colla, i segni quasi invisibili (le x, i riquadri, le strisce, le impronte, la spellatura del cartoncino nero delle pagine) che ogni tanto marcano il luogo dove un’immagine non c’è, o non c’è più, e avrebbe invece dovuto, o potuto, esserci, negativi di uno spazio che si sottrae ma lascia comunque un segno, anche in chi vi si imbatte. L’indizio di un salto, o di un vuoto, o di una negazione senza termini, ma anche l’invito a una sutura, a un ponte da immaginare e costruire.
Solo allora faccio caso al buco centrale, che non mi appare più come lo spazio scontato per le etichette dei dischi che non ci sono[4], ma in tutta la sua fisicità, e non ancora come un centro generativo e insieme la destinazione, il senza fondo, verso i quali le figure spiccano il salto, come il cavaliere acefalo su cui in questo momento sto fissando lo sguardo.
È soltanto a questo punto infatti che le fotografie cominciano ad acquistare interesse per me. Sfoglio l’album, dapprima, senza soffermarmi su niente, se non casualmente su questo o quel particolare. Non cerco un disegno, una forma o un’intenzione, mi lascio andare per un po’ alla distrazione. Divago. Ripeto l’operazione due o tre volte, andando avanti e indietro a velocità e attenzione variabili, con accelerazioni e ritorni a immagini che mi raggiungono a scoppio ritardato, o nelle quali un particolare emerge solo dopo che ne ho vista un’altra a seconda delle attrazioni casuali. Ad attrarmi per prime, per lo più, sono quelle foto piccole che racchiudono spazi e luoghi di difficile definizione e riconoscibilità, dove la figura umana è del tutto assente o eliminata (ma già l’eliminazione la segnala: e dunque queste un po’ meno), come ciò che rimane della cartolina spedita quindici anni prima della tua nascita da un certo Giovanni da un Lido imprecisato, che mostra però in primo piani sterpi e ravatti e dietro un cortile si direbbe di una cascina abbandonata, con una staccionata in legno davanti a una fila di aperture buie senza porte, tanto da richiamare più la pianura che qualche località in riva al mare. Guardo l’immagine; l’eventuale significato, o l’insieme di possibili allusioni che essa può avere per te, per la coincidenza delle date, non mi interessano[5].
Sono immagini di luoghi che non conosco e non mi richiamano alla mente niente; le guardo per quello che sono e comincio ad abbozzarne mentalmente la descrizione, o le descrizioni: meglio, perché ognuna di esse, a seconda di come le inizio, delle parole che uso, mi porta in direzioni differenti che dipendono meno da ciò che vi intravedo che dalle parole che sto usando. Le parole si instradano verso una costruzione della quale io mi sforzo di seguire la logica (finiscono sempre per averne una, — la mia testa funziona così —, e una stringente, dove tutto alla fine deve quadrare, adesso sì, attraverso equilibri sottili, ripetizioni e riprese, richiami e variazioni di ogni elemento, in una densità che toglie il respiro: asfissiante o asfittica lo dirà il lettore), verso un racconto. O quantomeno verso quello che io chiamo così[6].
Per quanto come documento (di cosa non saprei dire: a volte di chi l’ha scattata; altre di una cosa che era, è stata, o è così; altre ancora di chi la mostra o ne fa uso; ma niente colore del tempo, niente testimonianza storica, niente validazione di un fatto), la fotografia già mi dispiaccia di meno, in ogni caso prevale l’immagine, la sua organizzazione, i colori (meglio se in bianco e nero, cioè le sfumature e i gradi del grigio), le dimensioni ecc. Per esempio, se l’immagine è quella di un ragazzo[7] che si tuffa (p. 5), non penso a nessun tuffo che abbia fatto o visto fare io, non vado a memorie estive, non voglio sapere chi sia il tuffatore, non giudico lo stile del tuffo, non mi curo di allusioni o simboli, e tanto meno mi preoccupo della bellezza o della tecnica: vedo solo l’immagine di un corpo per aria, che assume una data posizione, collocato in un luogo preciso rispetto al pelo dell’acqua ma più ancora nel rettangolo della foto...
Ma anche quando mi soffermo su qualche foto in particolare, anche se questa o quella può interessarmi o stimolarmi, ad emozionarmi veramente non è mai nessuna di esse, ma ciò che tu ne fai, nel loro insieme e nei dettagli di ciò che ne fai solo in relazione all’insieme: è l’album. Solo allora anche ciascuna di esse, e ciò che è diventata l’immagine che ciascuna mostra, comincia a suscitare qualcosa in me[8].
E solo allora comincio anche a leggere le poche parole che hai tracciato ai margini (il che è piuttosto strano, per uno come me che non appena vede una parola scritta non può fare a meno di leggerla immediatamente) e comincio a pensare alle didascalie. Le foto in genere hanno “bisogno” di didascalie, senza sembra che l’immagine resti indefinita nonostante che la “realtà” riprodotta offra sempre un qualche riparo; qui invece non ne hanno nell’ “opera”, non c’è niente accanto o sotto ciascuna di esse, o in fondo all’album, ma sono “fuori”, come un supplemento che potrebbe fare anche a sé, costituire un racconto “a parte”, un altro racconto magari[9].
A proposito della necessità di supplementi (cioè che le foto abbiano bisogno di didascalie, ovvero di essere sempre animate dal di fuori, di essere a loro volta illustrate), mi torna in mente una cosa che scriveva Savinio negli anni ‘30, che «manca alla fotografia il ‘mistero dello sguardo’. Quello scambio di sguardo da pupilla a pupilla, quel guardare altero e mosso che coglie di sorpresa la realtà delle cose, nella fotografia non avviene, non può avvenire, perché la fotografia ha un occhio solo, e questo pure privo di movimento». Eppure a volte è proprio questo che della fotografia a qualcuno interessa (ammesso che sia vero che essa manca del “mistero dello sguardo”): che il mondo, gli uomini, i volti, sono visti senza uno sguardo che diriga la vista, come se a vedere fossero le cose: come se in essa fosse il mondo, senza sguardo, a guardarci (a vederci, oltre che a darsi a vedere). Non meraviglia allora che vediamo nelle foto brutture, imperfezioni, tutto “senza anima”, anche il “bello”. Così sono le cose. E questo può essere più interessante, e misterioso, di qualsiasi cosa che uno sguardo, provvisto o meno di mistero, possa vedere.
Ma questo certo non è facile da accettare, perché prima bisogna essersi separati dai legami che con esse intratteniamo di solito, dalle parole e dagli usi che le fanno essere per noi, e solo per noi. Ci vuole forza per separare, per fare il vuoto attorno, mettere spazio tra sé e le cose (e tra una cosa e l’altra): bisogna che il dentro si carichi quanto più possibile perché tutto venga espulso dal peso di ciò che si vuole separare (che vuole separarsi), e questo lascia tracce indelebili, pieghe che non possono essere raddrizzate né stirate, perché l’espulsione poi si traduce nella modificazione della pelle del dentro: la separazione del fuori dà la forma del dentro, il piatto si fa piega, il liscio rugoso, il bidimensionale si moltiplica per due. Oltretutto l’espurgazione non recupera la purezza, in quanto il segno lasciato dallo sforzo, chiamalo dolore se vuoi, è incancellabile, poiché non si aggiunge a ciò che era, ma è ciò che c’è (chiamala la sua gioia, se vuoi).
Non penso solo ai tuoi Cuscini e alle tue Braghe, quanto al momento in cui hai iniziato la Sonata: il giorno della morte di tua madre. Dunque, sembrerebbe, la Sonata non è altro che un’elaborazione del lutto, un’elaborazione immediata, per di più, e nella sola (?) maniera che si addice (così si dice) a un artista: con la nascita di un’opera[10](un modo per cominciare a farla finita non appena la fine è cominciata; il dopo-la-fine subito a caldo, mentre il corpo, perdonami l’empietà, non ha ancora cominciato a raffreddarsi). Ed elaborazione del Lutto per eccellenza, il solo a meritare la maiuscola, il Lutto per la Madre. Un modo per allontanare da sé un dolore che appare intollerabile, ma anche, con la riflessione e le rielaborazioni che comporta, per “fare i conti”, per trovare una “ragione” (una forma) a ciò che colei che è scomparsa era e portava con sé nel suo essere di ogni istante (ogni momento suo, del figlio, ma anche del marito, della famiglia - e della Patria, non solo dati i tempi); e tuttavia, insieme, un modo per trattenerlo (il dolore) con sé (e per trattenerla, la madre, in sé) con la maggiore intensità, cioè per impedire che si allontani, per cancellare la fine, o meglio: per non farla finire, perché il venir meno non venga mai meno e la fine non sia definitiva.
Per questo non ci si può limitare a Lei, ma bisogna che il trattenere, per essere più concentrato (più prossimo), si allarghi, al seguito di tutte le tangenti che dal bordo perfetto del vuoto possono partire, tangenti che, come è noto, sono infinite, anche se poi, di fatto, si concretano in variazioni, anch’esse tendenzialmente infinite, delle poche[11] che, nello spazio nero a cui il tempo sembra essersi ridotto (tendenzialmente cieco, eppure pieno di incomprensibili bagliori), hanno tracciato solchi (segni) più marcati...
E tutto questo mi turba, mi com-muove, perché allora non posso fare a meno di pensare a quando morirà mia madre, e non tanto nel modo in cui lo penso di solito (sempre con dolore, più o meno intenso a seconda delle occasioni, ma insieme con sollievo, dato che mi limito a pensarlo sapendo che è solo un pensiero: l’esorcizzazione del futuro in un presente che ancora mi consola, e come a una eventualità a cui in fondo non riesco a credere, una certezza che mi appare del tutto irreale), quanto nel modo lampante, indiscutibile, dell’evidenza fisica, per averla qui, davanti a me, in tutta la concretezza reale che forse allora non avrò, perché allora non avrò il tempo (né probabilmente la forza) di pensarci, in questo tempo doppio, nell’oscillazione che ora mi è concessa.
E come mai questo mi è possibile ora, mentre di solito non avviene con la miriade di altre foto che potrebbero suscitarmi la medesima reazione? Il fatto è che di solito, quando guardo una foto, a meno che non la conosca in un modo o nell’altro (anche per sentito dire, così da pensare: “Ah, è lei!”), la persona fotografata, per individuale che sia, e per individuati che siano i suoi tratti fisici o psicologici o storici, immediatamente si universalizza, svuotandosi della propria individualità, e diventa il rappresentante di una categoria, di un tipo, di una professione o di una condizione ecc.: è il contadino (siciliano, rumeno o bavarese), il panettiere, il travestito, l’internato, l’antropofago, il ghigliottinato...
L’immagine di ciò che è singolo nella sua singolarità, uomo o cosa, quindi di ciò che è e per essere non ha bisogno di stare per altro, diventa immediatamente proprio la sua negazione: ciò che sta per altro, o che lo “rappresenta”, non essendo più rilevante chi o cosa è/era lui: la vittima, per esempio. Se questo non avviene quando guardo la Sonata invece, è perché essa, pur raccontando una storia non si può più personale e con strumenti non si può più individuati (le fotografie, appunto, che attestano l’essere stato proprio di quello e di nient’altro in quel preciso luogo e momento), lo fa però in modo che si spersonalizzi (tutti i marchi di identità vengono al contempo indicati - date, luoghi ecc. - e negati - asterischi, allusioni incomprendibili a chi non sia F. d. L, volti tagliati o tanto lontani, ovvero, molto spesso, in ombra, da essere irriconoscibili, o riconoscibili, nei loro lineaementi, solo nel caso in cui sono sconosciuti a F. d. L. stesso: foto di altri e di altre storie che sembrano non avere niente in comune con questa, se non per qualche tangente); ma proprio questo, mentre allude a una storia che potrebbere essere di molti (la storia di un Italiano del ‘900, se non addirittura dell’Italia), la fa ripiombare in una individualità non più generalizzabile (e generica), bensì perfettamente concreta ma non più chiusa in se stessa: una storia che può essere anche la mia, meno perché posso riconoscermi in essa tuttavia (non mi ci riconosco affatto), quanto perché fa appello a me come individuo da parte di un altro individuo che posso riconoscere come tale, e solo come tale: proprio lui, anche se prima, e in un modo in cui prima, non l’ho mai conosciuto: in questo caso F. d. L., che allora non posso fare a meno di amare.
E come invidio, io, ora, qui, il bambino che dalla foto in alto a destra di p. 14 guarda verso di me con l’espressione della più perfetta felicità...
E poi, Federico, come sono belle le gambe di tua madre...

Fara, dicembre 1995
Ciao, Luigi.




[1] Nella ciambella la circonferenza massima, quella esterna, si chiama equatore; quella minima, l’interna, che delimita il buco, sia chiama invece gola. Atto della gola definisce Dante il respiro. Gola si chiama anche la cavità esistente fra due creste dell’onda. Gola è cavità, voragine, ma anche braccio di fiume, stretto di mare, istmo. In architettura è la modanatura il cui profilo è costituito da due archi di cerchio rivolti in senso opposto e raccordati fra loro, e, per estensione, elemento architettonico o modanatura che presenta una superficie concava o convessa (scanalatura). E ancora gola è la parte più stretta della cannoniera, che termina nella bocca; e poi la parte interna del tacco di una scarpa da donna, la parte del gambo di una nota, che è più vicino alla testa. Fare gola... prendere per la gola... morire in gola (venir meno della voce)... mormorare in gola (essere flebili, indistinti)... appendere per la gola... avere il capestro, il coltello alla gola... avere l’acqua alla gola... avere il pianto, un rospo, il riso, un groppo, il cuore in gola... schiarirsi la gola... restare a gola asciutta... essere immerso fino alla gola... tagliare la gola... tornare in gola (con forza irresistibile)... La ciambella di salvataggio ha spesso una corga che le gira attorno, vuoi attorno all’equatore, fissata da chiodi con la testa ad anello, vuoi passsando dalla gola all’equatore alla gola... Quanto all’equatore, oltre ad essere la corda invisibile che impacchetta il nostro bel pianeta, lo si potrebbe considerare anche come la gola di una ciambella (l’universo) il cui buco sarebbe proprio la terra...
[2] L’unico testo di Beckett che non mi piace è L’ultimo nastro di Krapp, forse condizionato da una vecchia messinscena alquanto patetica — leggi sconsolata — di Glauco Mauri: gli attori rovinano tutto; dopo non l’ho riletto però, e quindi potrei sbagliarmi: mi sembra così strano, a pensarci, un Beckett che cerca lo strazio; magari è solo sarcasmo per i rimpianti, ma allora ne vale la pena? Sarebbe come valutare con stelle o forchette una mensa aziendale.
[3] Ora in parte ho cambiato idea, ma è una debolezza, il giudizio di fondo resta quello. Non l’ho mai amata, fino a poco tempo fa, e in buona parte per le stesse ragioni di cui parli tu nella tua Introduzione: adesso un po’ mi piace, ma continuo a non stravedere.
[4] Del resto l’album è composto di pagine, non di buste, anche se ti confesso che un vuoto supplementare, tra le pagine, uno spazio in cui infilare qualcosa di mio (biglietti del metrò, qualcuno dei foglietti su cui scrivo, altre immagini...), non mi sarebbe dispiaciuto; ma forse sarebbe stato pleonastico, o addirittura ottimistico, di quell’ottimismo della crescita continua di cui né tu né io sappiamo che farcene. Noi, mi pare, siamo ancora della vecchia scuola per la quale meno è più; per noi è l’invisibile a dare forma al visibile e quindi dobbiamo togliere, scavare, spezzare, aprire varchi per farlo agire, o quanto meno per indicarlo o afferrarne qualche lembo, perché anche il visibile, che non disprezziamo affatto, anzi, che ci preme più di ogni altra cosa, venga in essere.
[5] Per esempio che quelle aperture richiamano i buchi delle pagine, ma, diversamente da questi, rinviano a un dentro nel quale invitano a entrare, per vedere cosa c’è, tracce di una vita passata o magari nascosta in qualche angolo, oppure resti di altre vite o di altri passaggi, animali o atmosferici; ma poi, guardando meglio vedo che una di esse una porta ce l’ha, ma socchiusa (come quella a p. 10, o come la finestra sul retro di di p. 28). Non ci entrerò (dico che non lo farò).
[6] La foto fissa l’attimo, talvolta l’attimo di un’esperienza che non c’è stata, la percezione di un frammento di evento che i sensi non hanno colto, e l’attimo è già racconto: non dico “è insito in”, “rimanda a “ o “contiene” un racconto, ma “è già” racconto.
[7] La capriola della quinta pagina è sulla sabbia, la testa è tagliata dal buco nel quale il corpo sta per cadere (estate, 1921); nel buco saltano anche, oltre la staccionata, il cavallo e il cavaliere di p. 12 (sotto, stessa pagina, dal buco è uscito un bambino, F., giorno della nascita 9-3-38 o poco dopo, foto sviluppata in negativo); due pagine prima (retro decima) dal buco emerge solo una racchetta; il tuffo in mare, nel buco, ma con foto capovolta(?) e disposta di lato, come se il tuffatore (la tuffatrice) dal buco stesse uscendo, scampata per un pelo (c’è anche quasi tutta la testa), è sul retro di p. 22; sul retro di p. 28 invece, il cane non ha niente a che fare col buco (ne è scampato? proprio non c’entra? non lo riguarda? non può esserne risucchiato?...) e guarda dall’altra parte, fuori da una finestra, la cui anta però gli taglia il muso (ma allora?), solo che la persiana è chiusa.
[8] Per esempio, di tutti i tagli, quello più forte è ovviamente il taglio del volto, la decollazione, che oltretutto mi ricorda il motivo di uno dei miei racconti che a te piacciono di più... Ma lasciamo perdere, il discorso sarebbe troppo lungo (e non è detto che non l’abbia già fatto).
[9] Per non parlare dell’introduzione che vi hai aggiunto, anch’essa piuttosto originale: quando mai si è vista non una nota alle immagini o simili, ma proprio un’introduzione a delle didascalie? Il che significa che pure le didascalie hanno uno statuto diverso dal solito...
[10] Anche da questo punto di vista Trame di famiglia mi sembra complementare alla Sonata. Gli elementi comuni sono molti, ma ciò che mi importa segnalare qui è che T.d.F. è composto di foto che tu hai scattato a Isetta incinta (nascita vs. morte, in questo caso) ma che sono state sviluppate solo dopo un lungo intervallo (14 anni); per non parlare dell’incrocio di certi temi, toccati casualmente (?) anche dai due fratelli scriventi, con quelli della S.
[11] Si potrebbe fare una lettura per temi, e poi intrecciarli: immagini, lingua, architettura, guerra, occhio meccanico, giochi, luoghi (per citare solo i principali).

26/07/15

Marta e Maria (il raccattabottiglie)



 C’era questo signore, un bel po’ meno giovane di me (che è tutto dire), che, mentre io il primo giorno soleggiato di questa primavera tardivissima, dopo essere andato a verificare se al mio cespuglio di rose canine erano spuntate le foglioline (sì), mi ero fermato sul ciglio dell’alzaia a guardare giù verso la boscaglia e l’antico corso del fiume, folgorato da quello che sul momento mi era parso il primo albero in fiore dell’anno (un pruno selvatico, credo), non ha fatto in tempo a sorpassarmi
a tutta velocità, elastico, elegante, che si è bloccato di colpo, è tornato sui suoi passi verso di me che mi sono riavuto all’istante dalla mia contemplazione, si è piegato verso l’erba ai bordi dello sterrato, ha raccolto con la sinistra una bottiglia di plastica ed è subito ripartito con un movimento fluido prima che io potessi leggerne almeno i lineamenti. Ma dopo appena cinque passi si è arrestato di nuovo, ha raccattato dall’erba qualcos’altro che, mentre riprendeva la corsa, ha riposto in un sacchetto di plastica che, solo ora lo notavo, stringeva nella destra e ha recuperato subito velocità, a busto eretto, la testa salda sul collo, il movimento delle braccia per nulla impedito dagli oggetti che teneva tra le mani. Ho estratto da tasca la macchinetta come un pistolero, ho chiuso lo zoom quasi al massimo e, sperando che andasse tutto bene, senza nemmeno inquadrare, sono riuscito a scattargli una foto sfocata appena prima che sparisse dietro una curva. Se già mi sentivo bene (per il sole, il cespuglio, il pruno in fiore: mica poco!), mi sono sentito ancora meglio al vederlo, a seguire la naturalezza dei gesti, la noncuranza di una cura fatta consuetudine; ma al contempo anche un po’ peggio. Per me, che non faccio che guardare. Non è vero, però così pensavo, convinto, allora. Per tutto il primo, e il secondo, e il terzo passo. Poi ho ripreso a respirare l’aria profumata.

 

21/07/15

Afe (Gianni Montieri mi dedica una poesia. Colgo l'occasione per usare afa al plurale, che magari è un apax)


Ieri mi è capitato di scrivere questo post, partito come semplice augurio (e infatti così arrivato):

Sul balcone stamattina c'è una bella arietta.
In compenso l'afa si è installata nella mia testa.
Leggo e le parole evaporano. L'inchiostro si solleva in tante colonnine sottili e tremolanti che, come tutto ciò che è solido, si dissolvono nell'aria.
La grafite sui foglietti degli appunti si espande in macchie, rivelando la loro vera consistenza: il torbido niente. Ma imperterriti, noi si continua a star qui, a cercare di fare, con il solo risultato di offrirci in infimo olocausto a zanzare e altri invisibili fratelli dell'aria.

Buona giornata 


Poco dopo mi ha scritto Gianni Montieri per dirmi che mi aveva dedicato una poesia. Questa (pubblicata con il suo permesso). Si intitola

Afa
(per L. G.)

L’afa si è installata nella mia testa
Hai scritto, e ho pensato
a quando si ferma sopra il petto,
le volte in cui capita
di far fatica a respirare:
accade quasi sempre di notte
l’afa preme nel silenzio
o forse fuori passa una moto
e pensiamo all’ansia,
alla paura della morte,
al passato, e invece è afa,
una seccatura estiva.




Grazie Gianni!



Ne approfitto per ricordare il bel sito Poetarum Silva di cui Gianni è uno degli amministratori. Consiglio di visitarlo.

http://poetarumsilva.com/gianni-montieri/

18/07/15

Redenzione




Niente di ciò che hai fatto, per quanto bello e grande e buono sia, può redimerti nel momento in cui di redenzione senti la necessità, perché ciò che hai fatto è appunto fatto, finito, consegnato al passato, quantomeno per te, e quindi non più utile ora, ora che di redenzione hai bisogno come dell’aria, ora che il semplice fatto di provarlo dichiara che non c’è assolutamente nulla di ciò che hai fatto che ti possa servire, che abbia ora il potere di redimerti, e che perciò, di fatto, sei irredimibile. 

 (Mentre scrivevo sono stato interrotto e ho perso il ritmo. Forse anche questa frase è irredimibile)

03/07/15

Una cartolina da Praga (da Racconti immobili)


 
 
L’ultima cartolina arriva da Praga. Raffigura un vecchio cimitero fotografato dall’alto. Centinaia di lapidi spuntano dal nudo terreno in modo irregolare come una dentatura mostruosa, in genere accatastate a gruppi l’una contro l’altra, con rare spaziature punteggiate da singole pietre più piccole. Hanno forme e dimensioni differenti, alcune più slanciate, altre più tozze, ma quelle che non sono state spezzate o smussate dal tempo terminano quasi tutte a punta. L’azione del tempo e di uomini non pietosi, l’abbandono e l’incuria, oltre forse a un errato viraggio della foto, ne ha invece reso uniformi i colori velandole tutte di una tonalità terrigna, dal bianco sporco al marrone cupo, mentre in origine dovevano essere quasi tutte bianche e solo poche di pietra scura, ma non nera. Quelle che una volta erano levigate ora tradiscono una porosità che le rende rugose e quasi crivellate di fori sbavati; le incisioni sono semicancellate, illeggibili, le poche decorazioni smangiate e appiattite. L’accumulo disordinato, l’assenza di vialetti o di qualsiasi intervallo che le separi, fanno pensare che nessuno sia mai stato sepolto lì sotto, o  che i corpi siano stati allineati verticalmente nella terra come libri sugli scaffali di una caotica biblioteca infera. Alcuni tronchi affusolati hanno trovato modo di farsi spazio qua e là, piante a loro volta disordinate e morte, tranne una, i cui rami verdeggianti spuntano dal margine sinistro, e pochi rametti ostinati con foglioline casuali e rade che sembrano voler incitare i loro tronchi a riaversi e invece ne consumano le ultime riserve. Tronchi, rami secchi e lapidi si aggrovigliano ancor di più nella parte superiore della cartolina, formando un diverso cielo al posto dell’altro, assente meno a causa della prospettiva aerea, si direbbe, che per un’estraneità sostanziale. È assente il  cielo, sono assenti i morti: perché mai dovrebbero comparire dei vivi tra queste lapidi ormai vicine a confondersi con la terra dalla quale spuntano, tracce di niente che non significano più nemmeno se stesse? Infatti  nessuno si aggira tra questo pietrame inutile e deserto, e nemmeno ci sono resti o indizi  di visite recenti. Come mai? Dove sono andati tutti? Forse passeggiano in città, forse sono andati a salutare la primavera in periferia. È facile immaginarli mentre camminano tranquilli in compagnia di famigliari o amici, che parlano e respirano a pieni polmoni un’aria che a loro sembra buonissima, come l’aria è di per sé: buonissima, sempre; alcuni discutono e scherzano, altri muovono con spontaneità le gambe, da soli, in silenzio, o fischiettano tra sé, la testa libera da pensieri.

Questa è  la cartolina con l'immagine dell'antico cimitero ebraico che qualcuno aveva spedito al Bar dove ogni tanto andavo a giocare a scopa. Il raccontino è nato per averla guardata centinaia di volte , molti anni prima che potessi andare a Praga, e per la meraviglia che qualcuno degli avventori, cultori indefessi di formosità abbronzate e doppi sensi, avesse potuto spedirla proprio lì. Diciamo 25 anni fa almeno.
E questa è la foto della tomba di Kafka al nuovo cimitero ebraico, che mi ha scattato Lucio Klobas quando poi ci sono andato la prima volta, in gita scolastica, una quindicina di anni fa, in epoca pre euro di sicuro.
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