12/06/15

Quanto leggono i giovani scrittori? (Cosa c'entra la quantità con la qualità?)




Tempo fa mi è capitato di sentire un giovane scrittore, autore di romanzi raccolte poetiche e saggi, che si lamentava che, tra attività sui social e aggiornamento sui siti online, ormai non gli rimane il tempo per leggere più di 2-3 libri al mese (scrivo in cifre perché il concetto è più chiaro... eh, i numeri!). Poco male, se uno nei siti giornalistici e culturali legge tante cose interessanti e corpose. Ce ne sono. Del resto, la citazione a senso è d’obbligo, già Hegel diceva che la lettura del giornale è la preghiera mattutina dell’uomo moderno. Preghiera! La secolarizzazione ne aveva ancora di strada da fare... Non che oggi non ce ne sia più. Sembra anzi che la prudente andatura del gambero prevalga sempre, ma a ritroso: un passo avanti e due indietro (le lettere invece delle cifre qui appartengono al cliché).
(Lasciamo perdere Hegel, che per me è sempre stato un modello di rigore fin dall'università, come si nota anche dal mio, di modo di procedere...)
Non ne faccio una questione quantitativa, che nel campo culturale, e creativo soprattutto, come noto non conta (questi verbi!). No, però... Magari, quel bravo scrittore intendeva 2-3 romanzi attuali, oltre alle letture di prammatica per il suo lavoro. Non so. Può essere. Ma si può anche dubitarne (appartengo alla scuola del sospetto). Altri giovani scrittori e critici e artisti che ascoltavano facevano ampi cenni di assenso, come se anche loro... Uno l'ha detto chiaramente, un esperto di nuove forme sociali e strumenti comunicativi, uno che va per la maggiore (e anche in gamba, lo giuro): io non ricordo quando ho letto l'ultimo libro. Eh, peccato. Vorremmo (alcuni; altri si vantano)... ci piacerebbe avere le occhiaie viola per il troppo leggere, come uno stravizio, ma proprio non c’è il tempo... Beh, sì, certo... il tempo... la vita, che, lei sì, corre... le esperienze da accumulare: se no di che si scrive? Altrimenti si finisce per fare della mera letteratura! (Ho già sentito dei redattori per la narrativa di importanti case editrici lamentarsi che certi libri fossero letterari. Non: troppo letterari; no: letterari e basta... Ma forse anche lì ho capito male)
Poi arriva l'ennesimo a scrivere, toh!, un libro (con tante citazioni: sempre le stesse; capito, Benjamin?) per lamentarsi della povertà di esperienza del nostro tempo. Cioè della nostra società: perché insomma, un ruandese, un aborigeno – dalle origini qualsiasi, purché remote –, un cacciatore di teste ridotto alle miserie della civiltà, o un tagliatore di teste, arrabbiatissimo con la civiltà: la nostra... cioè la sua fino a poco fa... loro, qualche esperienza magari ce l'hanno (però che palle, alla seconda volta che ne parlano... sapessero almeno raccontare!). Cioè, la nostra (povertà di esperienza). Anzi la vostra (degli sfaccendati che leggono il libro e non vivono). Cioè la loro, di quelli che scrivono senza manco leggere (in particolare quel libro).
(Che poi, quando qualcosa gli capita, non hanno le parole, e le forme in cui ficcarla.)
(Però basta che gli capiti. Che credano che capiti solo a loro, a loro per primi: i giovani. Che siano stati loro ad avere la bella trovata. Giusto, ogni generazione da capo! È un diritto sacrosanto.)
È cambiato il modo di aggiornarsi, di studiare, mi sono detto; non fare il moralista! (E ho detto anche all'amico che, lamentandosi della scarsa preparazione di certa gente che gli manda dei testi da pubblicare, mi ha stimolato questa... come posso chiamarla? ...ecco, sì: questa.) Non metterti a dire: ai miei tempi ecc. Mica sono tutti così. È verissimo. Non tutti. Online c’è tantissima roba da leggere di livello anche molto alto. Ci scrivo anch’io del resto. Leggono pochi libri perché studiano tanto lì. Capitolo chiuso.
Il vero colpo, invece, doveva ancora venire. Infatti, dopo una breve pausa per lasciare che l’ondata di assensi diventasse meno fragorosa, il giovane scrittore ha aggiunto: “mentre prima ne leggevo almeno 5-6”.
5-6? (Cinque-sei?) Ho capito bene? Chiedo scusa, ma allora un bel “ai miei tempi” non me lo toglie nessuno. Cioè, nemmeno nella mia prima adolescenza, quando ho cominciato a ventilarmi la possibilità di una scelta di studio e scrittura, se ce l’avessi fatta, con tutto l’impegno del mondo (poi le qualità, i doni, le doti, si sa...), una scelta sciagurata, come poi si è rivelata, arretratissima proprio mentre facevo degli avanguardisti i miei riferimenti (la scrittura!, il testo! Ma va a ramengo!), nemmeno allora con 5-6 libri al mese uno, e non solo io, e non solo per un'ingenua sacralizzazione della letteratura o della cultura (d'élite!), manco cominciava a credere di poter diventare uno scrittore o un letterato o quel che oggi corrisponde a quelle viete categorie.
Lo studio matto e disperatissimo come è noto fa crescere la gobba, ma oggi ci sono palestre e fior di metodi all’aria aperta e in casa per scongiurare queste disgrazie, nonché i paralleli disagi psichici e esistenziali (anche se questi la loro porca figura la fanno sempre). Non parlo per me: purtroppo io, a dispetto delle mie ambizioni giovanili, non sono tagliato per gli estremi, e nemmeno per i superlativi. Conosco tanta gente che lo è, invece. E la ammiro. Gente che studia sul serio, che non scrive una recensione in mezz’ora dopo aver letto solo il libretto in questione o aver visto un paio di mostre. Gente che, senza quantificare quanto, che non sta bene, legge e studia tanto. Quanto basta. E non basta mai. Che sa che la quantità sta alla base della qualità. Anche se la trasformazione alchemica non è automatica. I terribili lavoratori!, li chiamo.
È una citazione: di Rimbaud per la precisione. Uno che non ha studiato o letto tantissimo. O forse sì, in rapporto alla sua età. Ma lui, come si suol dire, era un genio.

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