27/02/15

V. Chodasevič e F. Prokosch

Nina Berberova e Vladislav Chodasevič
 
Che ne è della vita degli artisti, dei loro gusti e amori, dei loro bisogni e dei loro rapporti sociali? Se la figura dell’autore come antecedente, padre e padrone dell’opera, e l’immagine della vita come punto di riferimento imprescindibile per la sua comprensione sono state ormai cancellate dall’orizzonte esclusivo del testo, significa che diari, biografie e memorie vanno considerate d’ora in poi soltanto sotto il profilo storico-documentario, per non dire feticistico? Oppure ci sono già in essi tutte le condizioni della letteratura proprio perché, come dice Giorgio Manganelli, scrivere della vita di uno scrittore è impossibile e immorale?
Due libri recentemente editi da Adelphi possono aiutarci ad abbozzare una risposta: si tratta di Voci (tradotto da G. Forti) dello scrittore americano Frederic Prokosch, e di Necropoli del poeta russo Vladislav Chodasevič (1886-1939), curato da N. Pucci e prefato da Nina Berberova, che fu a lungo compagna dell’autore.
Il primo è un’autobiografia stranamente formata in gran parte dai resoconti di 50 incontri che Prokosch ha avuto e cercato nella sua lunga vita con ballerine, tennisti, spie e soprattutto con alcuni dei maggiori scrittori del secolo (Joyce, Stein, Eliot, Pound, Woolf, Blixen, Nabokov...); il secondo è composto da magnifici saggi di prevalente taglio memorialistico su protagonisti (Belyj, Blok, Esenin, Gor’kij...) del grande e drammatico periodo che anche artisticamente la Russia ha vissuto tra l’inizio del Novecento e l’affermazione della Rivoluzione d’ottobre.  La generazione che ha dissipato i suoi poeti, secondo l'espressione di Roman Jakobson. Pur non dimenticando le notevoli testimonianze e i curiosi aneddoti di cui sono ricchi (tanto che difficilmente si sbaglierebbe anche scegliendo a caso: si tratti di Dylan Thomas che si bagna nudo nel mare autunnale di Ostia, di Brecht che pontifica in uno squallido bar newyorkese o del vecchio Santayana nel suo convento, in Voci...; o delle bugie e delle lacrime di Gor’kij, delle equivoche compagnie di Esenin o dei tanti tragici suicidi in Necropoli), questi due libri ci interessano qui proprio per il grande spazio che danno alla figura umana e storica dell’artista e per i diversi atteggiamenti adottati nei suoi confronti dai rispettivi autori.
Cominciamo da Vladislav Chodasevič: in Necropoli, talvolta da conoscente tal altra da amico, ma sempre come critico che conserva una sua personale visione e capacità di resa oggettiva anche nei momenti di maggior coinvolgimento, egli narra soprattutto la storia di una generazione, quella simbolista, che, non ammettendo “che si separassero lo scrittore dall’uomo, la biografia letteraria da quella personale”, proprio per la costante ricerca di “una sorta di pietra filosofale” che permettesse di saldarle finì per tramutarsi spesso in “una storia di vite infrante e di potenzialità artistiche non realizzate fino in fondo”. Per questo Chodasevič accorda la propria attenzione anche a personaggi che artisticamente poca o nessuna traccia hanno lasciato di sé.
“Ricordalo: comunque sono esistito”, gli dice uno di questi, ed egli se lo ricorda, consapevole che anche in questi tentativi di legare arte e vita, “in alcuni casi autenticamente eroici”, sta la “profonda verità, forse irrealizzabile” del simbolismo. Non per questo però trascura di analizzarne l’equivoco essenziale, il quale (paragonabile a quello opposto di coloro che considerano l’assenza di vita come condizione dell’opera, secondo una malintesa santificazione del modello kafkiano, che di fatto spesso giustifica solo la vuotezza dell’una e la pochezza dell’altra), consisteva appunto nell’istituire una relazione di diretta implicazione tra le due realtà, e anzi di reciproca alterna subordinazione: così, per esempio, “bastava che fosse innamorato, e l’individuo si vedeva assicurati tutti gli articoli di prima necessità lirica: la Passione, la Disperazione, l’Estasi” ecc.; e viceversa le tensioni e i contenuti dell’opera dovevano riversarsi a ogni costo nella vita.
Subordinate in tal modo l’una all’altra, non è da stupirsi che potessero finir mancate entrambe. Eppure proprio ciò che i simbolisti russi non riuscirono a progettare, e nemmeno a prevedere (destino o storia), ha talvolta portato a compimento quello che altrimenti sarebbe stato solo l’involucro di un nato-morto, premurandosi di offrire una soluzione alle loro velleità, così colmandole. Per questo, come forse in ogni opera, anche le speranze dei simbolisti si realizzarono sotto il segno dell’involontario e le loro vite diventarono opera solo evadendo i loro progetti, e a noi si offrono sotto un segno che oltrepassa di molto il patetico a cui sembravano destinate. Grande merito di Chodasevič è di aver trovato l’esatta misura per raccontarcele, con una sobrietà che è già e sempre esercizio di intelligenza, da una distanza che non esclude la partecipazione e come una testimonianza che scherma con il suo tono oggettivo una personale meditazione sui territori della morte: Necropoli.

Di tutt’altro tenore sono il discorso e l’atteggiamento di Prokosch, che anzi a prima vista sembrano ridursi a quelli di un sia pure particolare ammiratore di divi. Colpito dai primi incontri infantili con grandi personaggi (specie Thomas Mann, amico del padre), Prokosch dedica parte della sua vita a rinnovarli, registrando fedelmente ogni particolare. Tuttavia presto anche qualcosa d’altro si insinua nel suo percorso ed egli, nei diversi interlocutori e al di là di essi, comincia a cercare “l’artista come eroe, come enigma, come martire, come rivelazione e infine come frammento dell’umanità”. Il viaggio alla sua ricerca, diventato Prokosch scrittore a sua volta, si trasforma inoltre nella ininterrotta formazione del viaggiatore stesso, che si ricerca come individuo e insieme come parte di una forza che lo trascende e di cui è preda (scrive il suo primo romanzo, Gli asiatici, come in trance), ma che intende conoscere e controllare sempre di più per servirla meglio, per rendersene degno. Egli si rende conto cioè di partecipare di qualcosa (l’arte, la bellezza, la creazione) il cui mistero non finisce di stupirlo e di restargli incomprensibile, ed è per questo che cerca di avvicinare coloro che al suo nucleo gli sembra che si siano maggiormente avvicinati. Proprio in quanto tali essi – che sono di volta in volta, o allo stesso tempo, i suoi specchi, gli amici, i modelli, gli eroi e gli uomini nella loro singolarità e estraneità – non solo non deludono mai Prokosch, ma possono a buon diritto, con le loro parole e la loro quotidianità, marcare le tappe fondamentali di un’autobiografia intellettuale in cui appunto tutti questi aspetti sono sottaciuti o elisi.
Ma se da questi artisti Prokosch ricava indicazioni e suggestioni più o meno importanti, non per questo si dilegua il mistero inaugurale, che anzi gli oppone in modo tanto più netto la propria oscurità quanto più viene messo in chiaro ciò che avrebbe dovuto approssimarlo (ma forse è questo lavoro di sgombero l’essenziale). Né da essi egli apprende la saggezza che ponga termine alla sua anche geografica instabilità, che invece gli si rivela parlando con due vecchietti che non si sono mai mossi dal loro villaggio natale, ma solo quando egli stesso è ormai pronto a riceverla. Come questa saggezza però, così anche i risultati di tanto affannarsi non appaiono alla fine particolarmente sorprendenti, né poteva essere altrimenti in chi cercava da altri una sicurezza e risposte che non sapeva rinvenire da sé e in sé, né nei testi dei suoi maestri.
E tuttavia Prokosch ha imparato certamente più di quanto riesca a dire: lo dimostrano i suoi romanzi e questo stesso libro. Voci infatti, a uno sguardo più approfondito, si rivela più di una pur bella autobiografia: proprio l’atteggiamento deferente del discepolo, la mimesi e l’adesione totale ai vari personaggi e al loro stile, ripreso nei ritratti e nelle ambientazioni, non solo permettono a Prokosch di praticare quella forma indiretta di critica che è sempre il pastiche, ma anche di aggiungere surrettiziamente, in alcuni casi, delle appendici apocrife all’opera dei suoi modelli.
Che cosa ha dunque imparato Prokosch e dovrebbero imparare quei lettori che ancora non lo sanno? Che ciò che è misterioso e non si riesce a formulare direttamente può sempre diventare un’opera e solo in essa manifestarsi; che il frutto della creazione è più misterioso e molteplice della sua origine, del suo processo di emergenza e del suo tramite o autore; che la domanda sulla causa è meno importante e interessante dei suoi effetti; che gli effetti sono la vera causa.
 30-01-1986



  

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