25/01/15

Una divinità fluviale, o un suo scagnozzo




C’era questa agitazione al centro del fiume stamattina, con pesci che spiccavano zompi di mezzo metro e poi si allontanavano a tutta velocità pattinando sulla superficie, prima di inabissarsi e tanti saluti. Me ne stavo lì a godermi lo spettacolo quando le acque, proprio in quel punto, hanno preso a ribollire e lentamente è emersa dai flutti una creatura mitologica (ma questa non lo era, dato che io l’ho vista). Le acque che bollono, i fumi che si alzano, il fuggi fuggi della fauna, sono lo scenario classico dell’epifania numinosa. Non capisco perché gli dei e affini non riescano a rinunciare a questi effetti hollywoodiani: come se temessero, se non mettono su un qualche teatrino, di non essere riconosciuti. Hanno pure loro i loro bei problemi di identità… Ci credo: l’esemplare di oggi faceva piuttosto schifo, pur non mancando di una sua maestà. Ultimamente il disgusto gode di crescente pregio.
Dicevo dell’essere mitologico, o mostro o semidivinità: era gigantesco, ma non tantissimo… diciamo semigigantesco, come Margutte (siamo sull’Adda, mica sul Rio delle Amazzoni o sul Congo), con una testa quasi umana, ma senza orecchie, il naso appena accennato, occhi gonfi, labbra grosse, sporgenti e viscide, con la pelle del cranio pelato che luccicava al sole nascente e bagliori iridescenti che balenavano lungo le spalle e il petto. Brandiva minaccioso un forcone con la destra, mentre nella sinistra si agitava un grosso cavedano che forse era rimasto impigliato tra le sottili membrane fangose che univano le dita. Era proprio un forcone, e non un tridente, e piuttosto rudimentale anche, certo ricavato da un tronco sradicato da qualche piena. La dotazione di queste infime divinità lascia un po’ a desiderare, ultimamente: l’armamentario non viene più rinnovato da secoli e loro si devono arrangiare con quel che c’è in magazzino o altre trouvailles, e poi ricorrere al bricolage. Solo che quanto a manualità sono piuttosto deficitari. Non è colpa loro comunque: nessuno gliel’ha insegnato. Cresciuti nella bambagia e poi abbandonati al loro destino. È triste.
Sembrava piuttosto arrabbiato, il bestione. Ha lanciato verso riva quello che potrei chiamare un urlo muto, dal momento che non ho sentito nulla, mentre ho notato l’acqua incresparsi davanti a lui e le foglie della riva percorse da un lungo fremito causato dello spostamento d’aria del suo fiato. Poi la bocca ha cominciato a articolare, o meglio: a mimare una prosodia arcaica (micenea, a occhio, o di poco successiva), silenziosa ma terribile. Come una poesia dadaista (quella è comica però). Io non capivo un’acca, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo da quelle labbra bavose: ne seguivo incantato ogni movimento, sillabando mentalmente  il loro ritmo, anche dopo che lui si era di nuovo inabissato nelle basse acque del fiume: tatatatà tatatatà tatà tàta, terrorizzato da quella voce non mia che martellava dentro di me qualcosa che ignoravo, dal suo puro e semplice tono.

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