14/01/15

Su Francis Ponge (1992)




"Mi accorgo di una cosa: in fondo ciò che amo, ciò che mi tocca, è la bellezza non riconosciuta, la debolezza d'argomenti, la modestia. Quelli che non hanno la parola, è a loro che io voglio darla. Ecco il punto in cui la mia posizione politica e la mia posizione estetica si congiungono. Umiliare i potenti mi interessa meno che glorificare gli umili (...) Gli umili: il ciottolo, l'operaio, il gamberetto, il tronco d'albero, e tutto il mondo inanimato, tutto ciò che non parla. (...) 'In piedi! dannati della terra.' Io sono un suscitatore." Il I marzo 1942, quando scrive quasi solo per se stesso queste parole che ben sintetizzano alcuni degli aspetti fondamentali del suo lavoro, il quarantatreenne Francis Ponge è un semisconosciuto che fiancheggia la Resistenza come "viaggiatore politico" del Fronte nazionale dei giornalisti. Fino ad allora aveva pubblicato soltanto una plaquette (Douze petits écrits, 1926) e qualche sparuto testo, sia pure su riviste prestigiose come la NRF e Commerce, grazie a Jean Paulhan, che praticamente per vent'anni è stato il suo unico lettore e interlocutore di livello (cfr. i due tomi della Correspondance, 1986). Occupato dodici ore al giorno a guadagnarsi da vivere, impegnato nell'attività politica prima come dirigente sindacale e dal '37come aderente al Partito Comunista, da dedicare alla scrittura non gli restavano che "circa venti minuti, la sera, prima di essere invaso dal sonno." L'annotazione ha un risvolto di ironia quasi a spiegare l'esiguità e la brevità dei suoi testi, ma nondimeno risponde ai fatti. Eppure raramente venti minuti al giorno sono stati così produttivi, a giudicare da quanto Ponge ha estratto successivamente dai suoi cassetti per inserirlo o svilupparlo nelle opere postbelliche o per offrirlo, assieme a materiale nuovo, alle molte le riviste che dal 60 in poi gliene facevano richiesta, testi di valore diseguale che ora sono stati ordinati e brevemente commentati nei tre tomi del Nouveau nouveau recueil da J. Thibaudeau, autore nel 1967 della seconda monografia su Ponge (la prima è di Ph. Sollers, 1960, e la più importante tra le ultime di J.M. Gleizes, ed. Seuil, 1988).


  Soltanto alcuni mesi dopo, tuttavia, quelle poche frasi avrebbero cominciato ad avere un senso anche per altri: nel maggio del 1942 viene infatti stampato Il partito preso delle cose, e da quel momento comincia l'ininterrotta fortuna dell'opera di Ponge. Fortuna dalle caretteristiche curiose, di cui si son fatti carico di volta in volta Sartre, Camus e gli esistenzialisti, quindi Sollers, Tel quel e le riviste della sinistra tra il '60 e il '70 (nonostante già da tempo Ponge si fosse schierato per un gaullismo sui generis), e infine filosofi come J. Derrida e le riviste più disparate, da L'herne alla NRF a Europe, che gli ha dedicato una monografia nel marzo di quest'anno, con una continuità di interesse e insieme un'eterogeneità di prospettive su cui merita di riflettere. Tutti , e a buon diritto, hanno trovato nel lavoro di Ponge, conferme e stimoli per il proprio, dalla presenza di un umanesimo intergrale dal quale è assente ogni traccia di trascendenza, all'attenzione per le cose e per l'apparentemente banale ("il bicchiere d'acqua aveva fin da principio qualcosa per sedurmi: è il simbolo di niente, o almeno, di poco. Un bicchiere d'acqua, è meno del minimo vitale, è la più piccola elemosina, la più piccola cosa che si possa offrire"), a un lavoro sul linguaggio che se da una parte esalta la disseminazione testuale dall'altra approda alla sobrietà e alla purezza dei classici.
  Certo è che Ponge ormai un classico lo è, nel senso attivo di una lezione che non ha ancora finito di dare i suoi frutti, più che in quello di una perfezione chiusa su se stessa. Se è vero infatti che il poeta insegue il linguaggio al suo stato nascente, tutta l'opera di Ponge incarna questa esigenza, accentuando anzi con gli anni il proprio aspetto di movimentum quanto più i suoi lettori tendevano a fissarla in monumentum. Anche così si spiega la caratteristica di molti dei suoi ultimi testi (per es. Le savon, 1967, e La fabrique du Pré, 1971) di esibire tutte le fasi della loro concezione e redazione, dalle ricerche lessicali ai brogliacci alle varianti, che tuttavia hanno soprattutto la funzione di intrecciare in tutti i modi possibili l'indagine intorno all'oggetto a quella sul linguaggio e ai differenti coinvolgimenti del soggetto.
  Per questo motivo la citazione iniziale, come ogni altra che si può fare di Ponge, se ha una sua efficacia, resta pur sempre parziale e quindi sviante, nel momento in cui porta a circoscrivere una presunta essenza della sua opera al mondo delle cose, come sarebbe tentato di fare colui che si limitasse agli aspetti più evidenti delle sue prime opere. Le cose infatti non vanno mai senza le parole, e le parole stesse sono cose depositate nel vocabolario e dotate di una materialità di cui si deve tenere in ogni istante conto. Se Ponge è fino in fondo un materialista, in quanto poeta lo è in primo luogo in questa presenza della fisica della lingua e nella consapevolezza della sua radicale storicità, dalle quali nessun tentativo di approccio alla cosa può prescindere. Sulla presenza e l'esistenza della materia, sulla sua bellezza e varietà, sulla gioia e il piacere che essa può dare, non ci sono dubbi: "raccattiamo semplicemente una zolla di terra", è lo stupendo inizio di un suo testo; ma d'altra parte la cosa in sé non fa che sottrarsi, sfidando lo scrittore a raggiungerla e descriverla con l'unico strumento a sua disposizione, la parola, "la vera secrezione del mollusco uomo". Ma nemmeno possono essere considerate un semplice strumento le parole, dal momento che è soltanto in esse che noi siamo e possiamo prendere il partito delle cose, così come da esse è impossibile trarre alcunché se nell'affrontarle non mettiamo in gioco tutto il nostro essere, nella sua indissolubilità di ragione critica, di pratica quotidiana e di sentimenti che spesso non hanno ancora un nome e che si tratta di riconoscere.
  Come altri giovani scrittori contemporanei, per es. Artaud e Michaux, Ponge era partito dall'impossibilità di scrivere nella lingua poetica tradizionale, che vedeva pervasa fin nelle radici da una società che egli respingeva, ma fu proprio il rischio dell'afasia, e il rifiuto della sconfitta che spesso il silenzio comporta, a spingerlo verso le cose e a fargli capire che non c'è "nessun compromesso possibile tra il partito preso delle idee o delle cose da descrivere e il partito preso delle cose. Dato il potere singolare delle parole, il potere assoluto dell'ordine stabilito, una sola attitudine è possibile: prendere fino in fondo il partito delle cose".
   Accettare il silenzio avrebbe significato sprofondare nella disperazione alla quale anche le parole del potere riducono; invece per Ponge bisogna scrivere per cercare le "ragioni per vivere felici", e per far questo è indispensabile riprendersi la parola sottratta, non fare confidenza al linguaggio ma resistergli, tenersi sempre "vigilanti" contro la tentazione di abbandonarsi alla confusione e quindi non permettere che la "rabbia dell'espressione" (che è il titolo di un libro del '52) soffochi la lucidità. La riflessione critica non va disgiunta dall'attività creativa, perché nessuna delle due precede l'altra: la teoria non prepara il terreno né giustifica a posteriori il risultato creativo, ma lo accompagna, vi si insinua come un elemento il cui difetto lo inficerebbe, così come la descrizione dell'oggetto passa attraverso il corpo e la storia delle parole e la varietà delle esperienze, cioè la soggettività, di colui che in tale passaggio è impegnato, cioè impegna, espone tutto se stesso. Il miracolo dei testi di Ponge è che tutto ciò non produca alcuna pesantezza o pedanteria, e che anzi il loro tono sia quasi ovunque leggero, chiaro, permeato di ironia e di quella semplicità e immediatezza che solo chi ha sormontanto gli ostacoli più duri talvolta riesce a conseguire. Questo tuttavia non deve far pensare che l'opera debba realizzare una conciliazione illusoria della distanza che separa reale e immaginario, soggetto e oggetto, cose e linguaggio; semmai la consapevolezza della tensione sempre aperta tra le contraddizioni muove a produrre un nuovo oggetto contraddittorio, appunto il testo, che non dà a conoscere se non realtà relative.
   Ponge scrittore "classico" e moralista tende verso la descrizione precisa, la definizione esatta ed esemplare, la formula scolpita ed eguagliabile alla pietra che spesso ne è l'oggetto, l'espressione impersonale del proverbio, e per ogni cosa cerca la sua retorica e la forma specifica che le compete, ma sa anche che la descrizione pura è impossibile, che nessun tentativo di accostare e delineare l'oggetto può prescindere dall'occasione e dall'emozione che la innescano e che, poiché di esso si deve dire ciò che fino a quel momento non è stato ancora detto, il già detto, l'intertestualità e la coscienza critica e storica che implica, è già in azione, e lui non fa nulla per nasconderlo. Anzi, poiché la forma stessa del testo è radicata nell'esperienza della sua elaborazione, ecco che la esibisce in tutti i suoi momenti e aspetti, e che la descrizione si trasforma in narrazione, in archeologia del sentimento e insieme nel suo nascere dalle parole che lo braccano, così che "una retorica per oggetto" si trasforma in "una retorica per soggetto così come viene a configurarsi nell'esperienza che fa di ogni oggetto". Che è del resto anche la strada sulla quale deve essere condotto ogni lettore, al cui cospetto lo scrittore non spiega il mondo, ma lo cambia, allo stesso modo in cui non divulga idee, ma le distrugge, per suscitare presso ciascuno una volontà analoga, che poco importa se si rivelerà relativa, dal momento che non può essere diversamente. "Di cosa si tratta, per l'uomo? Di vivere, di continuare a vivere, e di vivere felice. Una delle condizioni consiste nello sbarazzarsi dello scrupolo ontologico (un'altra nel concepirsi come animale sociale, e nel realizzare la propria felicità o il proprio ordine sociale). Non è tragico per me non poter spiegare (o capire) il Mondo. Tanto più che il mio potere poetico (o logico) mi deve liberare da ogni sentimento di inferirità nei suoi riguardi. Poiché è in mio potere - metalogicamente - di rifarlo." E per rifarlo conviene cominciare dalle cose all'apparenza più semplici, dalla materia in cui siamo fatti e che ci circonda e dalle esperienze che ogni istante abbiamo con essa. Perché "il più semplice non è stato ancora detto."
   


       

1 commento:

  1. - Francis Ponge qui e
    https://chiaraadezatiblog.files.wordpress.com/2010/05/francis-ponge-estratti-chad.pdf

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