27/12/14

Ragnatele, moscerini e neuroni specchio



 

I ragni mi ricordano qualcuno, anche se al momento non mi viene in mente chi. Poi ci penso. Filano ragnatele su ragnatele, come quelle sulla passerella sull'Adda, dove restano catturati moscerini a centinaia, ma poi non si vedono in giro. Se li mangiano davvero, prima o poi? Tutti? Sono abbastanza appetibili per loro, o i veri obiettivi della ragnatela erano altri e i moscerini ci sono finiti dentro solo perché erano lì, a gironzolare nei paraggi? È uno spreco! La catena alimentare non brilla per razionalità. La gestione risorse è deficitaria. Gli abbasso immediatamente il rating.


Secondo me i ragni non se li filano troppo i moscerini. Anzi, li disturba che tutti questi intrusi gli rovinino il lavoro. Così se ne vanno a tesserne una nuova un po' più in là. Dove resteranno impigliate nuove orde di quei minuscoli e delicati insetti dalle ali bianche trasparenti e dalla lunga coda sottile che mi incoronano per centocinquanta metri ogni volta che attraverso la passerella. Mi fanno festa, come se avvertissero una parentela nemmeno troppo lontana. Io ovviamente apprezzo.
Forse è per questo che mi interesso alla loro sorte. Alcuni li ho visti stamattina che agitavano ancora le ali su una bava che ondeggiava elastica, e il ragno magari era già emigrato in Mongolia (per dire...). O magari già morto. Anche da morti fanno danni. Se ne fregano degli effetti delle loro azioni. Gli artisti mica sono responsabili delle opere, una volta terminate. Una ragnatela, o due o tre, per ogni sbarra dei ponti e ponticelli che trovo sul mio cammino; distese di ragnatele come baraccopoli disastrate, paesi del Far West abbandonati (e... e...: insomma, ci siamo capiti), e di ragni nemmeno l'ombra. Moscerini, a bizzeffe invece. Morti o morenti. Dire che ci soffro, sarebbe eccessivo: i miei neuroni specchio non arrivano a tanto. E però...

20/12/14

Nozze mistiche, Sante che leggono, libri protetti da morbidi panni.



Nelle Nozze mistiche di Santa Caterina del cosiddetto Maestro del fogliame ricamato (Master of the Embroidered Foliage, attivo tra il 1480 e il 1510), ci sono queste due elegantissime signorine sedute nell’erba ai piedi della Madonna, che invece se ne sta, comoda e maestosa, su un bellissimo tappeto. Se non che, qui, è l'erba stessa a essere un bellissimo tappeto (finemente ricamato: appunto).
Maria tiene tra le braccia il bimbo, che sembra un ometto stempiato e si sta slanciando verso santa Caterina per impalmarla infilando l’anello nuziale nel suo anulare proteso. La santa, riccamente ingioiellata e abbigliata in modo adeguato alla circostanza e alla sua nascita regale, offre allo sposo un fiore purpureo, forse una rosa selvatica (simbolo del sangue che verserà per lui nel martirio? simbolo di un altro simbolo? di altri simboli a catena? a pioggia?), sotto lo sguardo compunto, certo devoto ma anche con una comprensibile punta di invidia, di una damigella inginocchiata alle loro spalle: un’altra santa martire, con il suo bel fiore tra le dita. 

 
Maria ha la testa leggermente reclinata verso ciò che sta combinando suo figlio; il suo sguardo mi sembra, più che attento, allarmato, come se non approvasse le nozze, forse a suo parere un po’ avventate, anche se solo mistiche. Tutte e tre le donne portano i capelli sciolti, lunghi, tanti ma sottilissimi, sfilacciati, che necessiterebbero di un trattamento per dargli volume e lucentezza; come li hanno pure le due damigelle dietro di loro, a sinistra, sedute sotto un pergolato in compagnia di un agnello, che se ne sta tranquillo a dispetto della sua interpretazione scontata, e come una terza a figura intera ancora più sullo sfondo, in quello che sembrerebbe un hortus conclusus, separato dal resto della scena da una cinta merlata così bassa che un cagnolino, o l’agnello di cui sopra, la supererebbe senza fatica in souplesse, rappresentata mentre coglie un fiore da una spalliera verdeggiante vicino a una fontana che dovrebbe essere quella della vita, o dell’eterna giovinezza (quella della salvezza, immagino in questo contesto, dell’aldilà: una giovinezza eterna, spirituale, non quella materiale, a cui la nostra carne aspira, ahimè senza alcuna speranza).

Ma non di questo voglio parlare...
A parte il disco luminoso dello Spirito santo, sempre presente quando si tratta di matrimoni dallo statuto particolare e dalla consumazione improbabile, ad affascinarmi al primo colpo d'occhio sono state le due damigelle sedute sull'erba, certo due sante anche loro: due sante della haute couture e del nobile portamento, se non altro. Una di loro volta una pagina di un manoscritto senza dubbio splendidamente miniato (impossibile attribuirgliene uno dozzinale), con sguardo pensoso: forse ha ancora in mente ciò che ha appena letto, lo sta meditando, o forse si dà solo un contegno, elegante come il suo abito rosso, semplice di fattura ma di stoffa pregiata profusa in abbondanza, e pensa ad altro, a nozze meno mistiche di quelle di Caterina, che a lei forse sono precluse per sempre; l'altra tiene in mano un rosario ma di sicuro non lo sta recitando: infatti lo regge delicatamente tra le dita come una collana, quasi ne soppesasse il valore, come certe signore di Vermeer. Ha il collo lungo e sottile, come quello della sua collega, ma che lo sembra di più a causa dell'inclinazione e della postura di tre quarti che favorisce la vista di un'ampia porzione delle spalle grazie anche alla torsione in senso opposto della testa inclinata in avanti che accentua la curva dell'attaccatura del collo alla schiena e all'acconciatura raccolta in alto, di fattura preziosa e ingioiellata, i capelli raccolti in un sottile retino: inclinazione come di assenso, quasi compiaciuta, ma senza esibirlo, con gli occhi socchiusi, da cui, più che uno sguardo mistico, estatico, rivolto insieme all'interno e al trascendente, traspare una sfumatura mondana, come la memoria, o l'auspicio, di altre estasi meno spirituali, più terrestri, di una che pensa, senza darlo a vedere, lei sì a nozze vere, o a qualche soddisfacente prologo di cui con buona probabilità ha già usufruito, forse di recente, e di cui pregusta, si direbbe, la ripetizione a breve, con una sensualità rattenuta, che peraltro le consuetudini dei suoi tempi e del suo ambiente indurranno a interpretare in senso più nobile e raffinato, come tutto in lei del resto: dai colori cangianti della veste alla cintura dorata, dall'elaborato copricapo alla manica di damasco che spunta dall'abito grigio, con i polsini di pelliccia, mi pare, come quella che sottolinea la scollatura dell'abito, e quelle che ritornano nei bordi e nei risvolti degli abiti delle altre sante, in accordo alla moda del tempo.

Dall'incanto del suo collo torno poi alla prima damigella, alla delicatezza con cui volta la pagina e regge il manoscritto tra le mani. È solo allora che noto il panno: panno che poi ritroverò nelle due sorelle di questa coppia che occupano i pannelli laterali di un “Trittico con sacra famiglia” di un ignoto Maestro olandese realizzato nel 1520-30 circa. 

 
Le sante sono Barbara e, vedi le coincidenze, di nuovo Caterina, qui non ancora a nozze. Ciascuna nel suo bel pannello personalizzato, le due sante sono raffigurate in piedi: in quello di S. Caterina si nota come il panno sia unito, forse da piccole cuciture, alla massiccia copertina, penso di cuoio - ma allora non andavano per il sottile e le copertine le facevano anche di legno, spesso con rinforzi di metallo, e pietre incastonate, e tutto un repertorio di superfetazioni variabili quasi a ribadire che non si trattava di un tascabile e che anche il trasporto era sconsigliato: eppure vedi la leggerezza con cui queste donne all'apparenza così gracili, con quella testolina che sbuca appena da quei copricapo così voluminosi oltre che preziosi, li sorreggono! Dico all'apparenza, perché già affrontare il martirio non è affare da ochette svenevoli, ma queste due, oltre che elegantissime e con un repertorio di veli svolazzanti, gemme e froufrou che di sicuro incanterebbero un Arbasino (o avranno incantato, perché cos'è che non ha visto quel sant'uomo?) e altri amanti della passamaneria e dell'estetica esuberante, sono rappresentate anche con un che di aggressivo, e direi quasi di minaccioso (un ultraedipico come il sottoscritto direbbe quasi castratrici): Caterina con la ruota ai piedi e uno spadone in mano che impugna con nonchalance e senza sforzo, manco fosse un leggerissimo bastone da passeggio (appunto: spadone, lei...); e Barbara (che protegge dalle morti violente, ed è patrona, tra l'altro, della Marina militare italiana, dei Vigili del fuoco, dei genieri e di altre categorie a rischio come gli architetti, i montanari, gli stradini, i cantonieri, i campanari e, qualunque cosa possa significare, gli artisti sommersi, quorum ego quindi), con, al posto della prosaica palma dei martiri, una grande piuma vaporosa di qualche uccello esotico, magari proprio di un uccello del Paradiso, o di altre località del turismo oltremondano, che sembra che il librone lo abbia scritto lei in persona (e intenda continuare, perdipiù), entrambe circondate da un cospicuo numero di erbe e piantine dipinte con una tale acribia che solo la simbologia, mica il naturalismo, può giustificare, e con alle spalle, invece, paesaggi agresti che verso il fondo sfumano nel favoloso, di un azzurro che di leonardesco ha solo una vaga memoria, e per il resto, come lo sfondo del pannello centrale, sono solo protodisneyani, cosa che a qualcuno magari parrà un merito.
   
 

Ma dicevo del panno sotto il libro... di quel lembo di prezioso tessuto, morbido, setoso, con cui queste sante, e tanti angioletti, avvolgono quei libroni così preziosi... per proteggerli, certamente, per preservarli dalla polvere e dall'umidità, dalle macchie di unto, dalla sporcizia così dilagante in quei periodi che spesso non veniva nemmeno avvertita, o dal contatto con il terreno, come per quello ai piedi della Vergine nel pannello centrale, ma anche dal sudore che a volte imperla le dita emozionate, e perché nemmeno le loro mani delicate rischino di scalfirli... ma infine, credo, soprattutto perché il contatto con il sacro ha da essere schermato, se no, lo sappiamo tutti, anche coloro che, come me, l'hanno dimenticato, brucia.




18/12/14

Signore con giaccone di pelle nera e cappello militare



C'è questo signore sui cinquant'anni, a volte accompagnato da una donna minuta dall'aria smarrita vestita in modo dimesso, se non sciatto, di statura medio-bassa (l'uomo), molto robusto, obeso anzi, con un viso rotondo e il ventre dilatato che preme contro il giaccone di pelle nera che indossa sempre, estate e inverno, e un grosso mazzo di chiavi che pende da una catena agganciata al cinturone, un cappello dalla tesa rigida, di tipo militare, simile a quelli che piacciono tanto ai bikers o ai gay-fetish, o più modestamente agli agenti della Polnotte, ma che poi, a ben guardare, richiama o forse addirittura è uguale a quelli della Wehrmacht, o delle SS, o di qualche altro corpo nazista, almeno dallo stemma riconoscibile però solo dagli intenditori, non da me, mentre invece sono espliciti quelli cuciti sul giaccone, accompagnati da croci e spille di gruppi di estrema destra, o proprio nazisti... insomma un uomo giusto così, come tanti, a vederlo, comunissimo, elementare nel suo comportamento come nei pochi discorsi che gli ho sentito fare passandogli vicino, solo a volte un po' sovratono, nel contenuto più che nel volume... uno che ha trovato questo modo per dire che c'è, che è lui, e vi si è trovato bene, per distinguersi nel suo piccolo grigio paese, come lui invece non vuole essere, forse, anche se oltre magari non è mai andato né mai andrà, come i suoi compaesani, tutti o quasi, ma che non per questo mi suscita qualche sentimento, di compassione per esempio, o di tenerezza: meglio, o che sento, in qualche modo, simile, sodale, come pure vorrei, ma poi no, non ce la faccio, proprio non ce la faccio.

15/12/14

Stafilococchi, virus, microrganismi, piante, animali (ma non uomini)



 

Ci sono alcuni che si stupiscono (e mi rimproverano: con tutte le cose importanti di cui si può scrivere!) che insisto a parlare nelle mie storielle di alberi, cespugli, boschetti, stradine, canali e acquitrini, cigni, anatre, passeracei e persino, e più di una volta, di vermi e di lumaconi (che però, a quanto mi risulta, sono tra i preferiti di una piccola schiera di lettori un po’ fanatici che ne hanno fatto un microcult, o qualcosa del genere). Nessuno invece ha da ridire dei milioni di storie dedicate agli esseri umani. E che? Il fatto di appartenere alla stessa specie dovrebbe per forza renderli più interessanti? Io, per esempio, a volte trovo più interessante uno stafilococco dei miei vicini (di casa, di città, di stato… soprattutto di stato; sia detto senza offesa né astio: si parla solo di attrazione, di affinità; si sta solo facendo un esempio: lo sanno tutti quanto sono gentile, io…).
Così, se mi guardo attorno in questo periodo e mi limito agli umani (altri primati nella mia zona sono rari: più diffusi gli ovini e gli equini), cosa vedo? (… )
Omissis: mi affido al quinto emendamento. 
Forse è solo perché siamo nei pressi delle elezioni politiche e amministrative, che a dispetto di Aristotele non tirano fuori il meglio da nessuno; o forse sarebbe così sempre. O magari è solo perché mi hanno appena estratto due denti e ho la bocca ancora insanguinata e dolorante. Ma non credo. Invece lo stafilococco, e tutti i cocchi in genere (che già il nome mi piace, anche se preferisco il femminile: e non solo nel nome), il suo fascino ce l’ha eccome! Dico stafilococco, ma non cambierebbe se parlassi delle muffe, come quella benedetta della penicillina, o di uno di quei bei virus o microrganismi che a noi sembrano così tremendi e invece sono solo dei capolavori con altre destinazioni rispetto alle mie; anche se per alcuni, come quello di Ebola, proprio non ci arrivo a immaginare quali. Quello del raffreddore sì, invece. Esseri che la nostra specie si sogna di poter emulare, quanto a plasticità e resistenza e capacità di metamorfosi. Noi ci trasformiamo in stelle solo nei miti (quando ci va bene).
Però, insomma, con i virus alla lunga l’empatia mi viene un po’ difficile: non fa in tempo a stabilirsi, a farmi increspare la bocca in un sorriso o l’anima in una lacrima, che è già dissolta. Con altri esseri viventi i problemi sono meno. Per esempio con le piante. Con le piante riesco persino a generalizzare. Non è che mi piace questo o quell’albero, o arbusto o cespuglio o fiore… cioè sì, anche il singolo, a volte proprio quel singolo più di ogni altro, ma sono anche capace di amarne mille, centomila alla volta. Con l’ Homo sapiens sapiens (il paradosso non è mio: sta già nella denominazione) invece no. Tre o quattro sono già tanti: ci riesco, con questa specie, solo singolarmente, uno alla volta. (Qui invece il deficit è mio, lo concedo volentieri.)
Poi magari li conto, e proprio pochi non sono. Ma mentre gli voglio bene, è a uno alla volta, per qualche minuto o per molti anni, che ne voglio. Se è per poco, può capitare che siano anche dieci in mezz’ora, magari, in certi momenti estatici dalle cause ignote, ma sempre, mi pare, uno per uno.
Non so, se vivessi da qualche altra parte forse riuscirei a guardare ai miei simili in un altro modo, con una simpatia che non si raffredda in proporzione inversa alla distanza. Magari anche con gli uomini riuscirei a estenderla dal singolo al gruppo e da quello alla generalità; e all’indietro: dalla generalità al gruppo e ai singoli, all’individuo unico. Ma vivo qui, e non ci riesco.
Gli stafilococchi e i batteri mi attraggono per la loro varietà e plasticità, ma hanno un difetto, per uno pigro come me: hanno una fisionomia un po’ monotona, troppo elementare: sembrano solo bastoncini, o sferette o filini, magari pelosi, curvi, con una coda a gancio, un ricciolino, e poco più. E sono troppo piccoli, bisogna andarli a scovare, ingrandirli migliaia di volte e colorarli in qualche modo, perché dubito che un colore loro ce l’abbiano, non c’è spazio per queste raffinatezze, si chiudono nel loro corredino genetico e amen. Invece, per esempio, tutti gli animaletti che prosperano tra i nostri peli o sull’orografia dell’epidermide, come gli acari e i loro congeneri, appena ingranditi sfoggiano una varietà fisiognomica che le creature dei videogiochi e dei film di fantascienza si sognano. Pur ispirandosi a loro, ci fanno una figura barbina, lo può verificare chiunque. Però anche loro stancano abbastanza presto, come gli eccessi (quando non distruggono; ma appagano pure, a volte…); e in fondo io propendo, pencolo verso cose che un po’ mi assomigliano, o a cui posso immaginare di somigliare. Qualcosa che posso vedere in giro, ogni momento. E allora mi installo in mezzo, o nei paraggi, con gli animali e le piante.




09/12/14

In margine a Dublinesque di Enrique Vila-Matas


Riba, il protagonista, è un editore (fallito economicamente) che si sente fallito (esistenzialmente),  perché, tra l'altro, non è riuscito a scoprire lo scrittore geniale, quello che avrebbe spalancato un modo completamente nuovo di vedere le cose, di comprendere il mondo e la vita... un'aspirazione legittima, perché senza ambizioni (e entusiasmo, secondo le parole di suo nonno) non si combina niente di buono, ma anche sciocca, o stupida, per usare la parola giusta, anche se rispecchia un'esigenza che tutti abbiamo avuto, io compreso, e nondimeno del tutto sbagliata, perché presuppone qualcosa che non c'è mai stato, a dispetto che per secoli dalle nostre parti ci siamo illusi che fosse non solo possibile ma anche reale: cioè che ci possa essere un modo giusto, e quindi valido per tutti, di vedere il mondo, e anzi, più a fondo, che ci fosse un mondo unico, e quindi uguale per tutti, da vedere, e tutti quindi a lamentarsi che di geni non ce ne sono più e mai più ce ne potranno essere, essendo sottinteso, per i più ambiziosi, e cioè per i più illusi, che se fosse stato possibile, allora quel genio sarebbero stati loro: ciascuno di loro, il solo genio universale, dunque, che tutti avrebbero infine letto, o visto, o sentito, e quindi amato e riverito, nel sogno infantile dell'onnipotenza... quando invece è più che ovvio, ma non per questo meno straordinario e positivo, che è molto meglio che ci siano tanti grandi autori (come Vila-Matas), o artisti, musicisti, o pensatori, letti o visti o ascoltati non da tutti ma da tante persone diverse in tanti luoghi diversi, tanti a leggere e ascoltare e guardare tanti in ciascun luogo, e così far proliferare i mondi, confrontarli, splancare finestre, aprire varchi, tracciare strade, ponti, dall'uno altro, e transitare e visitare e confrontarli e contaminarli e combinarli... sì, molto, ma molto meglio così, per quanto un fondo di tristezza, e di nostalgia per il sempre ovunque tutto sia comprensibile che permanga, lì, anche lacerante, a volte, perché, a ben vedere, anche da lì, e non solo dall'entusiasmo e dall'ambizione, viene la spinta a fare qualcosa, a farla il meglio possibile, perché tutti, sempre e ovunque, senza se o ma, ci riveriscano e amino, al di là di quanto potremo mai confessare, nemmeno a noi stessi.

08/12/14

Centauro


Io per esempio, quando vado in giro per le mie stradine di campagna o lungo il fiume, un centauro non l'ho mai incontrato.


P.F. Sacchi - I santi Antonio Abate, Paolo e Ilarione eremiti, dett. 1523

Ps. (In alto a destra il vegliardo ha una visione... o un'apparizione... forse un angelo... o forse proprio una ninfa... una bella tentatrice... e in un momento di debolezza, pensa: Prima no, eh?)

05/12/14

Georges Perec, Il condottiero




“Si scrive una sola opera”, dice Georges Perec in una delle interviste raccolte in En dialogue avec l’époque (ed. Joseph K., 2011), esprimendo un’idea non proprio originale, come capita spesso a quelle vere, e proprio per questo si è fatto un punto d’onore che ogni suo nuovo libro differisse dal precedente. Ha quindi moltiplicato gli accorgimenti per non ripetersi, ancor prima di entrare nell’Oulipo, attraverso decostruzioni, variazioni e contaminazioni di generi e registri, ricorsi a giochi e restrizioni di ogni tipo (le famose contraintes: regole, vincoli, passaggi obbligati), differenti declinazioni di personaggi e temi che prima o poi finiscono per tornare e che allora tanto vale giostrare consapevolmente, incursioni nel teatro e nel cinema, per non parlare delle innovazioni nella scrittura e nelle tematiche saggistiche, tanto che verrebbe più facile pensare a lui come a uno scrittore disperso in mille rivoli (e anche un po’ dispersivo, non fosse che la morte prematura impedisce un giudizio sulla possibile quadratura a venire) più che a uno che temesse di ripetersi e di risultare monocorde. E invece i vari frammenti della sua opera, pur non perdendo la propria unicità e specificità, sono andati a comporsi in un quadro unitario come i pezzi di un puzzle tanto amati e ricorrenti anche nelle sue parole e nei suoi testi, l’omogeneità di fondo è emersa anche tra le opere più disparate, e la varietà è andata a formare un reticolo complesso e multidimensionale che pian piano ha assunto i connotati del suo autore, come un (auto)ritratto a chiave, una originale e completa autobiografia indiretta fatta di tanti frammenti che tutto sono, all’apparenza, meno che autobiografici.
È anche questo che ha reso Perec una delle figure più influenti della cultura, e non solo della narrativa, a cavallo dei due secoli, come testimoniano anche i saggi che la rivista Europe (n. 993-994, febbraio-marzo 2012, a cura di M. Decout) ha voluto dedicargli invitando a parlarne scrittori e studiosi internazionali, tra i quali Vila-Matas, Celati, Josipovici, Sheringham e Benabou. Ma è anche quello che permette, come dimostrano i saggi raccolti nella rivista, da una parte di attingere a uno o più aspetti per articolarli in un percorso di lettura coerente e rivelatrice, come altrettanti fili e stratificazioni che da un’opera all’altra si sono venuti intrecciando e stratificando, e dall’altra di ritrovare, pur nella diversità dei composti, alcuni elementi base ricorrenti e per certi aspetti caratterizzanti del suo lavoro: nuclei narrativi, oggetti, personaggi, reticenze o costruzioni a latere o innalzate su un vuoto, o un silenzio programmatico (come la morte del padre in guerra e la deportazione della madre e di molti famigliari ad Auschwitz). E questo anche nelle numerose raccolte postume e negli inediti che sono stati via via pubblicati.

Il 3 marzo, esattamente nel trentesimo anniversario della sua scomparsa, è uscito da Seuil, per le affettuose cure di Claude Burgelin che lo ha corredato di una prefazione acuta e ricca di ricordi e informazioni, l’importante romanzo giovanile Le condottière (p. 203, E. 17; trad it. E. Ferrero, Ed. Voland, 2012), il primo che Perec abbia giudicato davvero “finito”.
Scritta dopo due altri romanzi abbandonati con pochi rimpianti, quella che abbiamo tra le mani è l’ultima delle quattro versioni diverse anche nel titolo che si credevano tutte perse. Terminata nel 1960, cioè cinque anni prima del vero libro d’esordio di Perec, Le cose, ristampato l’anno scorso da Einaudi, che gli ha subito dato una certa notorietà con la vittoria al Prix Renaudot, questa ritrovata è la redazione che Perec riteneva definitiva, e che è stata rifiutata da vari editori, in particolare da Gallimard che pure aveva dato all’autore un incoraggiante anticipo. Non si può dargli torto. È infatti un’opera molto interessante per gli studiosi e i tantissimi cultori di Perec, ma che non mi sentirei di consigliare a un lettore che desideri cominciare a conoscerlo, anche se ha il vantaggio di mostrare l’autore agli esordi.
Dopo molte trasformazioni, la trama si attesta sulla storia di un giovane falsario, Gaspard Winckler, che dopo dodici anni di felici, riusciti e impuniti, falsi di ogni genere e epoca, viene richiesto un lavoro molto importante dal suo committente Anatole Madera, che gli concede la più ampia libertà di tempo e di scelta dell’autore da falsificare. Gaspard si orienta su un Antonello da Messina (si noti la somiglianza con il nome del committente e l’uguaglianza delle iniziali) nell’intento di farne anche il proprio capolavoro: non un semplice falso nato dall’isolamento di vari dettagli da diverse opere dell’autore e dalla loro ricombinazione che dia luogo, come un puzzle, a una nuova figurazione, ma un’opera originale che eguagli quella del modello senza esserne una filiazione: che sia cioè “la creazione autentica di un capolavoro del passato” (p. 58), qualcosa che dia la misura non della propria abilità di contraffazione, ma dell’altezza di un’arte propria, personale quanto più rinuncia al proprio marchio e nome per identificarsi totalmente con quelli di Antonello. La scelta cade su un Condottiero, simile a quello che Gaspard può ammirare al Louvre, concentrato di forza e nobiltà e decisione che contrastano esemplarmente con i dati del suo carattere, da cui in tale modo vuole liberarsi: dalla corazza che lega i suoi gesti e insieme protegge la sua vita, che ha sempre più l’impressione di star mancando. Dopo un anno e mezzo di preparazione e pochi giorni di lavoro febbrile una volta trovato il passaggio verso il compimento dell’opera, smaltita l’esaltazione finale, Gaspard si accorge di avere miseramente fallito il suo obiettivo. Il fallimento diventa quello della sua vita, degli amori abbandonati che ora mancano, delle decisioni non prese, di una immediatezza e naturalezza di cui si sente espropriato e che ora cerca di recuperare sgozzando il suo protettore, con quello che sente come il primo gesto “naturale” della sua vita (p. 196). Il romanzo parte dall’omicidio e vi ruota attorno, raccontando gli antecedenti, l’apprendistato e il lavoro di Gaspard, i suoi successi professionali, gli incontri spesso mancati o mai davvero approfonditi, le responsabilità non assunte, i tentativi di spiegazione del suo gesto che dà a se stesso e a un amico nei numerosi dialoghi della seconda parte, in un susseguirsi di riflessioni che si estendono a tutto campo alle tecniche, all’opera, al mercato dei falsi e alle implicazioni intellettuali e esistenziali che questa attività ha assunto nel tempo per lui.
Alcuni, incluso l’autore, in questa storia di fallimento hanno visto una storia di presa di coscienza e di liberazione. A me non pare. La forma che la vendetta, tema ricorrente nell’opera dello scrittore, assume in questo Condottière, è grossolana e insoddisfacente, e appunto per questo ha bisogno di fughe e infinite giustificazioni. In La vita istruzioni per l’uso non c’è bisogno di nessuna spiegazione della vendetta che Winckler prende su Bartlebooth perché essa è resa inutile dai fatti e dalla perfezione del progetto in sé e del lavoro, che porta doppiamente a compimento l’opera (quella di Winckler e il suicidio di Bartlebooth), mentre nel Condottière la loro urgenza nasce proprio dal fallimento dell’opera (cioè del vero-falso nuovo Antonello). E su un’opera fallita non si costruisce nessuna riuscita, per quante parole ci si spendano sopra. Meglio abbandonarla, come fa Perec con questo suo “primo romanzo compiuto”, dopo i dolorosi rifiuti ricevuti. Meglio perderla, come le sue copie.
Mentre qui Winckler fugge, là si rinchiude, si separa: qui la vendetta è la fuga dall’opera (fallita) nel tentativo di riprendersi la propria vita; là è la concentrazione sull’opera, la dedizione totale ad essa in vista di una riuscita che avrà solo un testimone, e forse nemmeno quello, perché morirà con in mano la lettera del suo enigma irrisolto, il sigillo del fallimento del suo progetto di vita, del suo “uso”: una W dove doveva esserci una X. La sigla di un nome invece di quella dell’incognita.
L’incompletezza della vendetta è la stessa del romanzo, e la sovrabbondanza delle giustificazioni la stessa della volontà di esibire conoscenze e abilità da parte del giovane autore, irretito nelle parole d’ordine dei tempi, come traspare anche dalla forte presenza di richiami alla sociologia marxista e dalla declinazione in prevalenza esistenziale del tema del falso, che peraltro tornerà talvolta anche in opere e dichiarazioni successive, seppure in forme e toni meno ingenui. L’autentico, la vita, la libertà... cose così.
L’altro importante ma significativo fallimento è quello rintracciabile nella scrittura e nella struttura del libro, diviso in due parti per nulla equilibrate né complementari, ricche entrambe di sperimentazioni in genere non risolte in modo soddisfacente. Che Perec non amasse il romanzo tradizionale è un dato di fatto, ma sostenere che fosse ostile alla narrazione sarebbe un errore pacchiano. Del resto l’attitudine sperimentale che caratterizza tutta la sua opera è sempre all’insegna della massima leggibilità, senza farne una questione di stile o di marca personale per darsi coerenza o riconoscibilità (o vendibilità: come un brand), ma sfruttando ogni volta le specifiche risorse delle forme e dei generi adottati, anche se spesso tendendo, nella scrittura, al grado zero di un tono neutro e apparentemente solo referenziale o enumeratorio, attento solo ai luoghi e alle cose (senza per forza fare del narratore un puro voyeur né sposare il nouveau roman), e in realtà brulicante di riferimenti, citazioni, invenzioni e memorie, anche dolorose.
Già in questo primo romanzo Perec esplora modalità discorsive e narrative (per esempio il discorso in seconda persona che tornerà, diversamente declinato in Un uomo che dorme, riedito da poco in nuova traduzione da Quodlibet) e di costruzione della trama che consentano una narrazione non improntata a modelli canonici e tantomeno a una falsa e non problematica spontaneità. Alcuni pensano che siano stati la successiva adesione all’Oulipo, i giochi linguistici e le contraintes a distogliere Perec dalla narrazione: invece sono stati per lui un modo di recuperarla dopo tanti tentativi e mezze riuscite, come quello del Condottière. Non a caso dopo aver portato a termine La vita istruzioni per l’uso, lo scrittore ha sostenuto di avere sì fatto “implodere il romanzo”, ma aggiungendo spesso di aver scoperto, in questo lavoro di demolizione, il più grande piacere di narrare, un vero e proprio “giubilo” di raccontare che non aveva mai provato in vita sua: esattamente laddove il numero dei vincoli e dei passaggi obbligati era stato più alto, e forse proprio grazie ad essi.

Nel Condottière questi esiti non si possono nemmeno intravedere, e tuttavia la strada che vi porterà è già tracciata, nella sua esigenza di base, pur tra le imperfezioni e le contraddizioni, che non cancellano però le numerose pagine già molto acute e riuscite. La lettura offre inoltre quindi numerosi altri motivi di interesse: l’ultimo che conviene ricordare, ma non certo il minore, è quello di incontrare già qui personaggi, temi, forme e persino stilemi tipici del Perec maturo. Trovare le radici nascoste, il germe ancora imperfetto e informe dell’opera a venire che ora si conosce in tutta la sua complessità, è una grande soddisfazione non solo per il critico, ma anche per il lettore devoto, perché ne garantisce analisi e predilezioni e proietta, su una molteplicità che poteva anche derivare da capriccio o vaghezza di intenti, la luce della permanenza e della fedeltà a se stesso, cioè di una necessità ben più solida di quella ricostruibile a posteriori: radici vere, invece che immaginarie e solo immaginate.
In questo senso sarebbe però bello pensare che Le Condottière è stato tenuto nascosto così a lungo per precisa volontà dell’autore, che ne avrebbe dichiarato la scomparsa solo per gusto malizioso, come l’ennesima casella vuota di tante sue opere, come la casella vuota della sua opera stessa (non forse la vita stessa?), con gesto tipico del giocatore che Perec fu. Ma ancora preferibile sarebbe, per me, se a partire da tracce magari sue, da versioni davvero eliminate o perse, il libro fosse un falso da lui commissionato o scritto di propria iniziativa da qualche amico, che però glielo avrebbe per sempre tenuto nascosto.
 

L’articolo è apparso in forma ridotta su Il Sole 24 Ore e su doppiozero.com