28/07/14

I controllori




L'altro giorno, in occasione del loro sciopero, ho avuto una prova indiretta dell'esistenza dei controllori ferroviari. Ne avevo già sentito parlare, ma, non avendone mai incontrato uno nei miei viaggi bisettimali, mi ero fatto l'idea che si trattasse di una specie di leggenda dei binari, della creazione fantastica di viaggiatori sempre più timorosi per la propria sicurezza, come una specie di divinità protettrice, che forse non c'è, o forse è solo troppo lontana, ma il cui pensiero rassicura. È più che comprensibile, con i tempi che corrono (al contrario dei treni). (Lo è sempre e in ogni luogo, peraltro.) 
Così ieri alle 15,30, quando mi sono trovato sulla banchina sotterranea del passante, col biglietto già timbrato, e ho scoperto che c'era questo sciopero che sarebbe terminato alle 17,00, invece di adirarmi, ho preso la notizia con allegria, se non proprio con gioia. Non solo avrei avuto un'ora e mezza buona per riposarmi e leggere in santa pace su una delle comode panchine di marmo quasi tutte libere una volta tanto, ma poi avrei potuto mostrare con orgoglio il mio biglietto regolarmente obliterato a questa figura mitica ricevendone in cambio un paterno sorriso di approvazione, o solo uno sguardo benevolo, ma tanto significativo per me, tanto appagante!  

La signora che dopo un po' si è venuta a sedere accanto a me, quando ho le ho manifestato il mio entusiasmo come a equilibrare le sue lamentele, mi ha detto che in realtà i controllori ci sarebbero sempre, su tutti i treni, solo che se ne starebbero tutto il tempo in cabina a chiacchierare con il guidatore e scenderebbero solo ogni tanto, a qualche fermata, per verificare che tutti siano saliti in carrozza prima di chiuderle con una loro chiave che le comanda tutte le porte. Una visione cinica che non mi sono sentito di condividere, anche se per cortesia non ho controbattuto. Comunque un sospetto mi è venuto: io pure ho la vaga memoria di visto un uomo in divisa accanto al treno qualche volta, ma poiché era vicino alla cabina di testa e vi è subito rientrato, ho sempre creduto che l'uomo fosse il guidatore. Fra un'oretta o due avrei verificato. 

E invece all'arrivo del primo treno, non quello delle 17,00, ovviamente, ma nemmeno il successivo delle 17,15, e nemmeno l'altro delle 17,30, ma solo quello delle 17,45, la ressa per salire e prendere un posto a sedere mi ha oscurato la visuale. Non importa: lo avrei visto al controllo a dei biglietti. Ho cercato subito il mio e, tenendolo poi sempre in mano, delicatamente per non stropicciarlo, l'ho spostato in una tasca facilmente raggiungibile per evitare di farlo attendere quando si fosse presentato davanti a me in tutta la sua maestà, per quanto al momento avrei magari armeggiato qualche secondo fingendo di non trovarlo per leggere sul suo volto prima uno sguardo di paziente attesa, poi di vago fastidio misto all'insorgere di un certo sospetto, e infine la luce del sollievo quando glielo avrei porto con grazia e un timido sorriso di scusa per la vidimazione che, in un certo senso, avrebbe vidimato, per qualche tempo (un giorno, una settimana, addirittura un mese...), anche me, anche la mia esistenza. E così l'ho atteso per tutto il viaggio, con fiducia, senza trepidazione. Ma quando sono arrivato a destinazione lui non si era ancora visto.
Ho immaginato tutto il lavoro che avrà dovuto sobbarcarsi, con la popolazione viaggiante moltiplicata dall'attesa stipata nelle poche carrozze che, pur con tutta la sua buona volontà, e nonostante le suppliche di quel nostro angelo custode in livrea, l'amministrazione delle ferrovie, di certo sviata nella sua lungimiranza da qualche funzionario maldestro o sabotatore, è riuscita a raffazzonare per quella prima corsa; e me lo sono visto farsi largo tra tutti quei corpi scomposti e accaldati, e magari cercare di raggiungere qualche solito clandestino senza biglietto che si era messo a spintonare non appena aveva visto la suo nobile figura profilarsi in fondo al vagone, e cercare, nonostante tutto, di giungere fino a me, ma inutilmente... Anche stavolta, come sempre, inutilmente.

 

26/07/14

Figura di schiena (Materiali e itinerari, 1-3)



 Alla ricerca delle figure di schiena - 1° itinerario

Vorrei suggerire, per quest’estate, alcuni itinerari alla ricerca di Figure di schiena (d’ora in poi fds) per chi è in ferie, o in giro, o solo ha voglia di fare una gita o una visita a qualcosa di bello. Segnalerò luoghi dove ce ne sono alcune che ho usato nel libro o che posterò qui, divise per categorie, con l’invito però a chi lo desidera a cercarne delle altre, magari specializzandosi in alcune delle categorie che specificherò più avanti di suo particolare gradimento, e di mandarle poi al sottoscritto (grazioli.luigimario@gmail.com), che provvederà a pubblicarle nelle cartelle appositamente preparate con i dati di chi le avrà inviate, se lo desidererà.
Suggerisco di limitarsi a opere che non vanno oltre la soglia del 1600, se non per casi molto speciali, perché dopo e sempre più avvicinandosi ai nostri giorni, le fds non solo si moltiplicano, ma cambiano in parte statuto rispetto a quelle analizzate nel libro. (Un esempio nel post qui accanto.)

Primo Itinerario
Il viaggio alla ricerca delle fds potrebbe cominciare, come molti altri della storia della pittura, da Giotto, quello di Padova però, della cappella Scrovegni, e non quello di Assisi, dove ce ne sono molte meno e meno significative (anzi, dove mancano in scene analoghe ad altre che a Padova invece le contengono: per es. Nell’apparizione di S. Francesco a Arles da una parte e L’ultima cena e La pentecoste a Padova; o La morte di S. Francesco e il Compianto della Scrovegni; le altre trovatele voi, se ve ne lasciano il tempo e non vi cacciano fuori perché è scaduto (http://grazioliluigimario.blogspot.it/2014/04/quello-che-ho-imparato-dalla-visita.html).


(Già che siete a Padova, io darei ben più di un’occhiata alla  straordinaria Cappella di San Giacomo nella Basilica del Santo e al vicino Oratorio di San Giorgio di Altichiero. C’è molto da scoprire, anche in termini di fds. E allora perché non fare un salto a vedere gli affreschi del giovanissimo Mantegna della cappella Ovetari agli Eremitani, e, nell’adiacente museo, anche il meraviglioso quadretto della Partenza degli Argonauti di Lorenzo Costa, il cui incanto nessuna riproduzione può sperare di solo avvicinare? Io ci torno ogni volta che posso.) 

Visto che siete in Veneto, io farei anche un salto a Verona a vedere il Pisanello di Sant’Anastasia (ma in città c’è dell’altro che vi lascio scoprire, in particolare al Museo Castelvecchio ); poi da lì non a Bergamo, dove ci sarebbe la meravigliosa Accademia Carrara che però è visibile solo in parte, fino all’anno prossimo, ma a Trescore Balneario a cercare le fds della cappella Suardi di Lorenzo Lotto. Se qualcuno ama le terme può fermarsi a Trescore; se gli piace il lago, può salire al piccolo lago d’Endine, che è a pochi km, e dopo o svoltare a sinistra e andare a Clusone a vedere il bellissimo affresco del Trionfo della morte nella Collegiata e la cappella con Compianto in sculture policrome e altri affreschi, o proseguire per Lovere e da lì scendere sulla costa bresciana del Lago d’Iseo e fermarsi a Pisogne a ammirare quelle degli affreschi del Romanino nella chiesa di Santa Maria della Neve (se passate da Trento negli affresci del catello ce ne sono altre).
Poi chi è stanco, o ha tempo, può fermarsi nei paraggi, e dormire sul lago e salire l’indomani in Valcamonica a vedere i meravigliosi graffiti camuni in vallettine incantevoli, dove si respira un che di sacro, o scendere verso l’autostrada A4, e mangiare e soprattutto bere (benissimo: chi non guida però) in Franciacorta prima di proseguire per Milano (di cui parlerò in prossima puntata).


2. Back, di Florian Beaudenon

Un amico mi suggerisce queste figure di schiena:
 http://florianbeaudenon.com/albums/back/


È tutta gente giovane, con la pelle liscia, ancora elastica, che le imperfezioni non minano, e anzi rendono più belle di molti tatuaggi. I capelli scendono, una si volta, ma il volto non importa. Desideri vederlo finché resta invisibile, poi non importa più. I capelli contagiano della loro sensualità le schiene, non viceversa: ma allora il desiderio è lo stesso, l’impulso a toccare, a misurare i rilievi delle spine dorsali, tutte perfette.


Sono figure di schiena che non mi interessano molto però, perché, a parte che sono fuori tempo massimo rispetto ai limiti che mi ero prefissato (fino al XVII secolo), vogliono essere, e sono, figure individuali, nel senso che ambiscono a essere, oltre che belle come solo una foto può ambire di essere (ciò che è il limite di ogni foto, del resto), dei ritratti per via negativa, con il volto inscritto da un’altra parte, nella grana dell’epidermide, nella lucentezza e lunghezza e nel movimento dei capelli, nella trama dei nei e dei melanomi, e nel disegno e nella posizione o nell’invasione dei tatuaggi. Vogliono essere di più dandosi come un di meno, o nella negazione del di più per eccellenza: il volto, gli occhi, l’espressione. Sì, sì, va tutto bene, confesso l’attrazione momentanea, l’increspatura fulminea della libido, ma non era questo che mi aveva colpito, o che cercavo, nelle figure di schiena della pittura classica, che non sventolavano la negazione, non se ne facevano belle, e se ne stavano invece lì nel loro abbassamento, sulla via di scomparire, di essere niente e nessuno, eppure irremovibili, uniche perché generiche, uniche nella genericità.





3. Jan e Buster che ridono



Mi scrive Tommaso Isabella, che ringrazio:
Ciao Luigi, a proposito di schiene, ti segnalo questa di Keaton, che avevo messo qualche tempo fa come profilo e che magari conoscevi già, non so, è più una curiosità. Era una fotografia che pubblicizzava il passaggio alla distribuzione dei suoi film per la United Artists (1923 ca.) e fu lanciata come “l’unica foto in cui Buster Keaton sorride”. TI posto sotto l’originale e il poster in cui venne inserita.


Conoscevo la foto, da cinquantennale patito di Keaton, ma non l’aneddoto e il manifesto. Grazie Tommaso!
A proposito di sorriso, estraggo questo passaggio dal libro, che parla del pittore nell’Atelier di Vermeer:
Allo stesso tempo, però, il pittore nel quadro, nell’insieme dell’ambiente rappresentato (cioè l’atelier) segnala anche la parte che egli ha nella sua composizione, che ritaglia accosta struttura la realtà; che la mette in posizione (in posa); che la inventa, e dispone tutto non solo nello spazio ma anche nel tempo, persino la realtà apparentemente senza tempo della natura, delle cose e della luce. Dovendo attribuirgli un’espressione, nel versante che ci è impedito di verificare, verrebbe più facile immaginarlo che, pur pensoso e concentrato, sorride. E sorride perché non sapremo mai venire a capo del marchingegno che ha messo in funzione, che come detto si rilancia ad ogni nuovo piano che gli si possa trovare, e soprattutto perché non sapremo mai se sorride davvero (che è una ragione in più per farlo davvero).



  questi testi sono pubblicati in contemporanea anche qui: 
http://luigi-grazioli.tumblr.com/


L'ebook  invece (150 pagine, 4 euro) si può acquistare qui:


22/07/14

Patria (Ecco: non credo)


 
Mi spiace, ma come molti, forse come l'italiano medio, ho sviluppato fin da piccolo una grave allergia verso la parola patria e non ho ancora trovato il modo di guarirne. Non l'ho nemmeno cercato, a esser sincero.
L'allergia si estende a tutte le parole che hanno la maiuscola, o la contengono implicita. Mi irritano, sbocciano immediate eruzioni cutanee che preferirei evitare. Non le capisco, e ancora meno capisco i loro significati. Quando mi capita di incocciare in qualcuno che le usa, non so mai di cosa stia parlando davvero. E se mi sembra di capire qualcosa, è tutta roba che non mi piace. Sento sempre puzza di bruciato (se proprio va bene, il bruciato della retorica, anche di segno negativo). No, grazie. Con tutto che ho studiato filosofia e sono legatissimo (ma anche distantissimo)  al luogo e alle persone che mi stanno attorno. (La patria potrebbe essere questo, ma non credo lo sia.)
Del resto ci penso poco e non mi viene in mente nessuna ragione per farlo, se non per amicizia qui. (Anche l'amicizia potrebbe essere patria; sarebbe bello, ma ancora non credo. Ecco: non credo.)
Patria ha un senso, forte quanto vago, solo per gli emigranti, che però raramente usano la parola: gli emigranti esterni e interni, quelli che stanno via, fuori, anche quando stanno dentro. Quelli esterni di solito dicono "il mio paese", e spesso lo intendono alla lettera come il villaggio d'origine, con gli immediati dintorni al massimo. Del Paese invece, molti, specie oggi, si vergognano: non conosco una persona che abita all'estero che oggi non sprofondi quando amici, vicini, compagni di lavoro e conoscenti occasionali gli dicono: "Ah, sei italiano. Quel Berlusconi..." (E fosse solo per lui! Che è già parecchio...) Negherebbero di esserlo, come San Pietro, se potessero. Con identica vergogna per la negazione.
Se proprio devo passare a un livello un po' più generale, penso non alla Patria ma all'Italia, che è una designazione geografico-culturale dai bordi sfrangiati e poco più. Fosse meno, mi piacerebbe di più.
L'Italia (la Patria), come stato-nazione che oggi celebra i 150 di vita, sappiamo tutti come è stata fatta, e cosa ne è stato dopo. Una "necessità" storica, ai tempi; uno stato transitorio oggi: inglobata come sarà fra poco, da una parte, in qualche organismo più ampio, e frammentata, dall'altra, in unità più piccole, a loro volta arbitrarie e egoiste. E miopi, come sono sempre state in passato, con tutta la gloria che alcune hanno saputo produrre. In mezzo poche cose buone, come la Costituzione, e molte nefaste, come oggi. (Patria sarebbe allora ciò che dobbiamo difendere contro i barbari interni? contro i delinquenti che stanno distruggendo e svendendo il poco di buono che nonostante tutto il passato ci ha tramandato?)
Trovo solo definizioni per via negativa. Ciò che dovrebbe fornirmi un'identità, Patria o Italia che sia, ne è a sua volta sprovvista. (E meno male.)
Non mi identifico. Non le appartengo. Non sento di appartenere a niente e a nessuno, tantomeno a me stesso.
Se guardo cosa mi resta della patria, ridotta all'osso, scrostata da tutte le sozzure che le sono intrecciate, e direi quasi che in buona parte la costituiscono, l'unica grande cosa è la lingua. Non è un'osservazione originale, ma è così: la mia patria è la lingua, dialetti inclusi.
Considero patria tutto ciò che ho dentro e non si può estirpare, da qualunque fonte e luogo provenga. Ciò che ho dentro dall'inizio e ciò che mi è entrato nel tempo e mi ha fatto quel che sono. Reticoli. Allora non ho una patria, ne ho molte. Ho dei reticoli multidimensionali di patrie, alcuni dei quali avvolgono il globo, altri pochi chilometri quadrati; alcuni sono fatti di luoghi, di materia; altri di cose, di opere e di parole; alcuni sono immersi nel passato (i morti), altri nel presente, pochissimi nel futuro (immaginato); sono tutti crivellati di buchi, da dove passa anche il respiro; alcuni sono radi, altri più fitti: più si avvicinano a me, più sono fitti, anche se non è detto che quelli più radi siano meno forti. Le patrie che ho e che amo sono queste.


Foto: 1. Luciano Fabro - Italia Cosa Nostra (1968-71)
2. Luciano Fabro - ItaliaFeticcio (1981)

3. Terra che calpesto e i miei piedi come fattore di verità n. xx (2014)

 PS. Non so, è come se fossimo troppo vecchi per queste cose. Ne abbiamo viste troppe. Non ci fidiamo. Ogni volta che lo abbiamo fatto è stato un macello o una fregatura. Ci fidiamo solo della piccola comunità, del branco. E poi caschiamo in tutte le trappole che la sua sicurezza ci fa credere di poter ignorare e che la sua cecità non ci fa nemmeno vedere. Siamo un popolo terminale.
Ci scambiamo solo frasi fatte in una lingua morta. Il dialetto non aiuta, tanto più che sta morendo lui pure. Usiamo una lingua che non ci appartiene: una coltre di stereotipi di cui rivestirsi e con cui mascherarsi per difenderci contro il vuoto (di comprensione, di esperienza, di emozioni, di vita). Io fatico a dire noi. Parlo solo per me. A dire noi è la lingua. Il noi è lei. Ma se lei è morta, siamo morti anche noi.