18/06/14

Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga


 
Meglio non fidarsi delle cartine stradali in una città come Lisbona che è tutta un saliscendi: le distanze sono sfalsate, perché la mappa riduce tutto in piano, e se sbagli la traversa, a volte minuscola, non segnalata e stretta come una feritoia, o ti confondi in un intrico di viuzze senza targhette o addirittura senza nome, devi fare dei giri interminabili, e se uno ha fretta, o non gli piace camminare o ha qualche problema respiratorio e motorio, magari sotto il solleone anche a inizio ottobre, allora, su quei marciapiedi sconnessi, quando ci sono, e su e giù per certe pendenze che te le raccomando, be’, allora è un disastro. A me invece camminare piace, e anche perdermi (non apposta, non sono così raffinato: solo se càpita), e per soprammercato coltivo una piccola arte del bighellonare svagato, tanto più in viaggio, che il tempo mi è indifferente, ragion per cui in città come Lisbona ci sguazzo senza pudore. (Lo dico di tutte.) E’ per questo che, anche se ci ho messo un po’ ad arrivare al Museo di Arte Antica, che dal centro, dove ero, secondo la mappa distava poco più di due fermate di metrò, la lunghezza del percorso e il solleone non hanno ridotto l’allegria che la prospettiva di visitarlo mi aveva messo addosso. (Al ritorno però ho visto una fermata di bus a pochi passi e ne ho approfittato.)

Nell’atrio d’ingresso c’era solo una signora esotica al bancone dei biglietti che si occupava anche del guardaroba. In genere i sorveglianti erano poco numerosi e gentili, molto discreti, come padri benevoli che osservano da lontano, pronti a intervenire ma solo nel caso la situazione stia per degenerare, cosa che nei musei è piuttosto rara (a meno che non si tratti dei pochissimi famosi come grandi magazzini, sempre ricolmi di masse di turisti). Ognuno aveva in carico alcune sale, che sorvegliava da una sedia situata sulla soglia tra due ma con vista su ampie porzioni di un altro paio. Mentre mi aggiravo nelle prime sale il signore addetto, più o meno mio coetaneo, ogni tanto chinava il capo e sonnecchiava: al risveglio mi guardava sorpreso e  un po’ allarmato di ritrovarmi ancora lì, ma subito rassicurato che me ne stavo buono buono a prendere appunti su qualche sedile o divanetto, alzandomi ogni tanto per controllare un dettaglio o scattare foto, tanto che poi raggiungeva il collega più vicino tre o quattro sale più in là e mi dimenticava per lunghi tratti. Sono rimasto nelle sue 4 sale un’ora e mezza, mica poteva star lì a contare tutti i miei respiri! Quando, ogni 10-15 minuti, compariva una coppia o un gruppetto di visitatori (mai uno da solo: solo una signora con il figlioletto, a cui mostrava alcune cose, con il bambino che annuiva, sgranava gli occhi prima verso il quadro e poi in quelli sorridenti della madre, ondeggiando il bel crapone, che è scena che mi commuove sempre), faceva una veloce incursione, o si limitava a affacciarsi e, come se la mia quieta permanenza garantisse anche per i nuovi arrivati, la cui velocità di visita peraltro, non discostandosi dalla media, era rassicurante già di per sé, tornava con passo morbido da dove era venuto.

I visitatori si muovevano senza impacci, con bella scioltezza che non veniva turbata nemmeno dalle stazioni un po’ più lunghe davanti ai quadri più famosi o da cui erano attratti per qualche ragione; una coppietta si scambiava circoscritte ma intense effusioni sul divanetto della sala degli olandesi, forse stimolata dal clima di intimità di certi interni o ritratti
famigliari, davanti a uno dei quali, opera di Pieter Fransz de Grebber, una famigliola guardava un suo corrispettivo di quattro secoli prima come se a essere rappresentata fosse lei, in abiti del passato e in una campagna ormai scomparsa, o quella di papà o mamma con i numerosi fratelli (uno ogni anno) e rispettivi genitori (la donna un po’ pallida, ma con le guance rubizze e ancora abbastanza in forze nonostante tutti quei parti: e non escludo che un paio di bambocci ancora in fasce aspettassero a casa) e i cani di famiglia, che come ovvio stanno anche ad indicare la fedeltà: cosa indubitabile del resto, almeno da parte dei lei: non solo perché sempre incinta, o appena sgravata, ma anche perché immagino che la regolarità delle pregnanze non fosse poi così favorevole alla risorgenza della libido.

Il bookshop è piuttosto spartano e offre solo cataloghi o libretti dedicati al museo o poco più; anche i souvenir sono misera cosa, messi lì solo perché non starebbe bene che non ci fossero, ma dubito che qualcuno li compri. Ci ho provato con un quadernetto, ma era senza righe. Scarse anche le cartoline con le riproduzioni delle opere , e solo delle più importanti. Le opere si possono fotografare però, senza che nessuno abbia da ridire (come quasi ovunque, eccetto che in Italia).

Non molto fornito nemmeno il ristorantino modello self service, con due inservienti, di cui uno diviso tra bar e cassa: i piatti però sono decorosi e abbondanti, i prezzi contenuti, e soprattutto si può mangiare sotto maestosi alberi di jacaranda in un bellissimo giardino, che, per i più romantici, termina in una terrazza ricoperta con vista sulla foce del Tago. Bello. Persino la bambina che gioca a rincorrere i piccioni ridendo ogni volta che uno si alza in breve volo solo per sfuggirle di qualche metro, guardando la mamma per vedere se si compiace di lei (sì) e attorno per verificare se qualche altro ammira le sue prodezze (no), persino lei non dà fastidio. Il 60enne francese che, mentre fa un discorso pacato ma palesemente, nelle intenzioni almeno, feromonico, alla sua commensale 45-50enne e intanto getta le briciole nel prato divertendosi, e pensando di divertire, all’accorrere delle bestiacce, invece sì. Tanto più che, non appena si accorge che circondano a frotte il suo tavolo, non smette di gettare le briciole e le lancia solo più lontano: accanto al mio. Grazie. (Non mi vede: la spuma del desiderio si tiene la pupilla tutta per sé.)

Rientriamo nel Museo, va’.




Nella terza sala (la 64) c’è un trittico di Jan Provoost, la Madonna della misericordia (1512-15). Dire che è bello è forse esagerato, ma c’è una cosa che mi colpisce: le donne in basso a destra nel pannello centrale cosa diavolo stanno guardando? Tutte le figure maschili ai piedi del trono, tranne quello con l’abito rosso e il soprabito scuro che immagino sia il committente (non credo che lo siano i rappresentati del potere spirituale e temporale in primo piano), dirigono lo sguardo verso la Madonna e il Bambino, in preghiera, come se fossero presenti alla scena secondo una consuetudine che risale ai primitivi fiamminghi. Il committente e la moglie (la biondina slavata in abito verde sulla destra) forse non guardano niente, o solo la visione interiore che gli altri, santi defunti, hanno la fortuna di godere direttamente, di persona (per quanto in spirito, attesoché per la resurrezione della carne è ancora presto), al pari di tanti donatori fiamminghi (per esempio il più
famoso di tutti, il Cancelliere Rolin di Van Eyck); ma le donne alle spalle della moglie, forse parenti, figlie e/o sorelle più che sante protettrici, a dispetto dell’augusto spettacolo e della circostanza (siete in un quadro perbacco!, un trittico mica da poco, e sarete sotto gli occhi di tutti per i secoli a venire!), anche se alcune sembrano levarlo in alto, loro pure prese da qualche visione mistica (ma fuori cornice, come quella che guarda verso sinistra, in alto: forse qualcosa sul muro, forse un altro cielo), dirigono il loro sguardo verso punti imprecisati dello spazio antistante, ma non verso il posto del pittore o dello spettatore, lo lasciano vagare qua e là, chissà dove, attratte da chissà cosa. Si distraggono, come succede spesso alle donne, e anche a me. E poi magari vedono cose che non ci sono; o scoprono cose che non avevano visto.

(Lascio che la visita mi guidi così.)

(Visite guidate, con lo scrivente a sua volta guidato da questo o quello.)


2)

             
 e c’era questa resurrezione un po’ asfittica sull’anta destra di un trittico di Quentin Matsys (o della sua scuola, piuttosto). Cristo si libra in uno spazio costipato, al di sopra della solita soldataglia che, manco a dirlo, si era addormentata durante il turno di guardia. Che cavolo di incarico è sorvegliare il sepolcro di uno straccione? Però l’evento sorprendente un paio li ha svegliati. Sono ancora intontiti dal sonno, e difatti uno ha uno sguardo confuso che non sa dove posarsi ed è come se stesse ancora mettendo a fuoco il mondo, scarsamente supportato da un cervello che ha fatto più di una sosta sul percorso della filogenesi. Il suo compagno invece ha reagito più in fretta e guarda di sott’in su questo mago in decollo verticale. Ha dei baffetti da gagà, le guance lisce di chi si è rasato accuratamente al massimo la sera prima, quando forse si è goduto la libera uscita prima del turno di notte. Nemmeno lui sa ancora come inquadrare il fatto, e al momento è in preda a una meraviglia sbigottita. Alla relazione che dovrà fare più tardi, inventando qualcosa di credibile, perché quello, insomma, è un po’ troppo, che poi lo accuserebbero di essersi ubriacato in servizio, o di aver mangiato uno di quei dolci speziati che, be’, ci siamo capiti..., al falso che dovrà essere più vero del
vero, non ha ancora avuto il tempo di pensare. Chissà cosa racconterà. Tanto più che la tomba ha ancora i sigilli intatti, con la ceralacca rosso brillante lungo i bordi della gigantesca lastra tombale. Perché lo notasse anche lo spettatore attento, il pittore li ha dipinti in trompe l’oeil, in rilievo, come dei falsi che col quadro non c’entrano, appiccicati sopra la superficie della tela o tavola che sia. Dei falsi a tre dimensioni, come veri sigilli. Messi in un angolo del pannello però, non troppo in evidenza, per non distrarre il devoto che a svagarsi è già predisposto di suo. A pensare ai propri peccati ci si deprime. E poi si rischia di non cedere più. Che quello sì, sarebbe il vero peccato.

3) 
 


e c’erano anche questi due vescovi di scuola valenzana, o forse uno stesso vescovo sdoppiato in due diverse figurazioni, o due fratelli vescovi, o due estranei che per essere entrambi vescovi, e vescovi dipinti dalla stessa mano o bottega, hanno finito per assomigliarsi più di due fratelli, che magari all’inizio non erano poi così simili, ma alla lunga, si sa, la frequentazione, le condivisione di idee e condizione, la fratellanza nella fede e nell’apostolato… come che sia, c’erano anche questi due vescovi con quella pelle cerea, appena ravvivata da un po’ di fard sulle guance, che nel secondo, dove è più accentuato, sembra più il riflesso della mano guantata di rosso alzata a benedire, che un colore naturale, o un belletto da funeral house non molto attrezzata, o opera di un restauratore ridotto alla disperazione, che, davanti a un tale sfacelo, non sa più che trucchi e colori pigliare. L’espressione del brav’uomo infatti è funerea, tristissima di una tristezza definitiva. Forse è davvero morto e non lo sa, e continua a benedire, ascetico e meccanico, in eterno. Forse lo sa, ma non se ne è fatto ancora una ragione, e allora ha deciso di fare come se non lo fosse. O forse una ragione non se la farà mai, fede o non fede, paradiso o non paradiso.

4)


poi c’era questo santo fortunato, ma anche un po’ disordinato, a giudicare dai libri sulla mensola, pochi eppure messi lì alla rinfusa, appoggiati come capita capita dopo l’uso, con una certa sprezzatura, perché sembrano codici miniati di qualche pregio, e comunque libri sacri, che non meritano di essere trattati così, e non lo meriterebbero nemmeno se sacri non fossero (ma forse tutti i libri sono sacri), che prega davanti a un breviario spalancato su un leggio. Le pagine non stanno ferme, alcune si alzano e lui le legge di sguincio, ma non gli importa, perché le ha recitate tante volte che le sa a memoria e le tiene aperte davanti a sé solo per controllare qualche breve passaggio, o perché il libro è una metonimia per il suo contenuto e lui è davanti a quello che sta pregando, è quello che adora con gli occhi del pensiero. E lui è un bravo santo, e proprio per questo ha la fortuna di un angioletto cicciottello tutto per sé accoccolato sul piano di lavoro del leggio, che gli fermerà le pagine dovessero girarsi prima del tempo e intanto col ditino tiene il segno in un altro libro che il sant’uomo leggerà appena dopo, a meno che non sia lui che intende suggerirgli la meditazione successiva e per questo gli prepara la pagina opportuna. Il bimbo, senza ali, che magari un angelo non è e simboleggia solo qualcosa che al momento non posso né voglio verificare, ha le guance rosse per lo sforzo e la concentrazione; si vede che ci tiene a lavorare bene: forse è al suo primo incarico e vuol fare bella figura, anche se non capisce perché l’hanno mandato lì senza niente addosso. La stanza però è soleggiata, entra una luce calda, che indora tutta l’ampia cella di rimbalzo dal vicino oceano, lungo le cui spiagge, in Portogallo, in questa stagione freddo non fa: anche se questa, comunque, non è una buona scusa per andarsene a spasso nudi. A meno che non sia il bambin Gesù, accorso in prima persona a servire il suo santo prediletto: i grandi hanno di queste delicatezze (dico i veramente grandi, non le loro infinite parodie). Poi magari sistemerà anche lo scaffale levitando in aria con quei libri sottobraccio, che meno male che non sono troppo voluminosi. Il santo non gli bada, o lo scambia per una pura, e più verosimile (per modestia, non per poca fede), visione interiore: ha un bel volto, rigoroso ma non emaciato. Quasi dolce, anzi. Concentrato, ma senza sforzo. Con naturalezza, piuttosto. Il volto di chi prega amando la preghiera. Il panneggio dell’abito, dal tessuto morbido che senza stropicciarsi asseconda con le sue pieghe i movimenti o le posture del corpo, mi sembra un riflesso, o la traduzione visiva, di quello che sta pensando. Qualcosa di bello, che rasserena. O forse a pensarlo, e a essere rasserenato, sono solo io, che mentre lo guardo ogni tanto volgo la testa verso la finestra e mi sento avvolto dalla stessa luce e dallo stesso calore. 


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