29/05/14

Un San Sebastiano e un Sansone e Dalila dalla mostra Moretto, Savoldo ecc. di Brescia




e comunque, ad ogni buon conto, tra l'altro c'era un San Sebastiano curato da Sant'Irene di Alessandro Rosi (Firenze, 1627-97), di cui ho trovato una riproduzione in bianco e nero in rete dove invece della santa il titolo cita delle ignote "pie donne", con il bel corpo del santo che, supino, attraversa in primissimo piano il quadro da sinistra in alto all'angolo destro in basso, riverso come certi Oloferne specie seicenteschi, ma già del 500: penso allo Spurio Cassio decapitato del Beccafumi a Siena (ma anche, successivo, al Battista del Tiepolo della Cappella Colleoni di Bergamo, che è prono però), con la differenza, ovvia, che questo prediletto da Dio la testa l'ha ancora ben attaccata al collo, gli occhi spalancati che guardano stupiti lo spettatore da sott'in su certo a suscitare una compassione che quest'ultimo, io di sicuro, già gli concede a priori, poveretto, le frecce che sbucano da ogni direzione, come capita spesso, quasi che gli arcieri si fossero schierati in cerchio tutt'intorno e da differenti altezze, a volte addirittura prendendolo di mira come dalle pareti di una sfera immaginaria sprovvista altrettanto immaginariamente di gravità, col rischio che qualche freccia sfuggita al controllo finisse per colpire anche qualcuno di loro, ma presumo che li abbiano scelti tra i più provetti, anche se che qui come altrove non devono essersi impegnati molto a giudicare da come il bersaglio è stato colpito, per fare l'ipercritico a ogni costo, perché di certo io manco li avrei sfiorati, non che c'abbia mai provato..., una delle quali, stavo parlando delle frecce, sta per strapparla dal petto la santa, di forza, nonostante la mano che la stringe sia protetta da un panno, forse per evitare che scivoli sull'asta, ehm sull'asta, tutta presa dallo sforzo, che eccessivo non dovrebbe risultare a giudicare dai polsi robusti, o forse concentrata nel compito, nell'intento di fargli il minor male possibile, e uno penserebbe addirittura del bene, se volesse equivocare maliziosamente sulla sua postura ripiegata sul petto del giovanotto che certo non sarà mancato tra le fedeli, e i fedeli, chi lo abbia trovato, così, robusto, muscoloso ma non troppo, attraente, o appetibile, perché no?, come forse sta dicendo la giovane sullo sfondo a sinistra in alto alla sua amica più anziana, in ombra, che di sicuro è una pettegola di prima categoria, e che come tutte le pettegole di ogni categoria preferisce sparlare di nascosto e non le risparmia a nessuno, tanto meno a quella finta santarellina che guardala come si curva, che ha persino coperto il volto con il velo per nascondere il rossore, infuocato di libidine, altro di pudore!...
 
 
...belle braccione robuste le ha anche la Dalila del Romanino, che la libidine se la deve essere lasciata alle spalle da parecchio, vestita e pettinata di tutto punto com'è, nonostante sia presumibile che  abbia sfiancato non poco il beato Sansone che ancora sta dormendo della grossa, stremato, ma lui pure vestito, anche se poco si nota da come è collocato nell'inquadratura, in basso a sinistra, con la testa appoggiata a un cuscino di velluto reso con grande perizia come tutti i tessuti del quadro, con una cura che non sempre ho riscontrato nel pittore, rosso, il velluto, come a richiamare i tanti decollati che lui pure qui richiama, le castrazioni si assomigliano tutte, vere simboliche o metonimiche che siano, un po' in là con gli anni e stempiato, forse perché potrebbe essere il ritratto di qualche bresciano reale con la sua giovane e carnosa, sana, soda e insieme morbidissima, mogliettina, quei ritratti in vesti bibliche o storiche che a quei tempi andavano così di moda al Nord, oltralpe, dico stempiato perché di sicuro lo scotennamento non è ancora iniziato, non essendo la fronte insanguinata: la maliarda ha solo tirato indietro i capelli e si appresta a tagliarli con un forbicione che però tiene in mano in modo tale da far sospettare che l'impresa potrà riuscire, a meno che usi le lame come fossero un coltello, perché si vede subito che lei una forbice non l'ha usata mai e poi mai, che tanto a queste cose ci pensano le serve, mica sono affare suo, anche se stavolta a quanto pare spetta a lei sola sbrigarsela, tanto che vien da pensare che lo sguardo di compassione della guardia agghindata lei pure come un damerino sia diretto più a lei che, come farebbe piuttosto supporre la solidarietà maschile in simili frangenti, a quel tontolone di Sansone (del marito...), chissà se ci riuscirà.
 
una Giuditta di Francesco Cairo; in sostituzione di quella in mostra di cui non ho trovato la riproduzione
 

e a proposito di Giuditte, ce n'era anche una delle innumerevoli dipinte da Francesco Cairo, abbastanza bella anche, con la testa di Oloferne già tagliata e ripulita appoggiata sul piano di un tavolo, in basso a destra, avvolta in un panno in modo però da lasciar vedere quasi interamente un volto che tutto sembra tranne quello di un truce satiro guerriero squassato dalla libidine, ma quello di un bell'uomo anzi, come si addirebbe più a un Battista non troppo consunto da digiuni e prigione, del tipo che nella pittura lombard
del 500, e non solo (Salario, le tante di Cranach, per esempio quelle di Lisbona - cfr.), fa bella mostra di sé su vassoi di vario pregio e fattura, anche scolpita, 
come quella che ho visto a Bologna 15 giorni fa (cfr. foto), ma con un'espressione serena, non la bocca spalancata, gli occhi folgorati da un ultimo subitaneo terrore e i lineamenti sconvolti di chi ha appena subito un trauma feroce (la compassione della ghigliottina doveva aspettare ancora 20 secoli e più), ma di chi invece si è addormentato con la coscienza a posto, innocentissima, che io, che pure sono un brav'uomo, me la sogno, mentre l'eroina, pur agghindata e bella paciosa come Dalila, si lascia sfuggire dal corsetto di pizzo un mezzo capezzolo, e guarda in alto, con uno di quegli sguardi di vuota estasi di cui brulica il barocco, fuori dal quadro, dove si dirige anche lo sguardo della serva in ombra alle sue spalle, che l'ha aiutata nell'impresa e invece di distrarsi dovrebbe farsi carico della testa e portarsela via senza indugi, a guardare cosa non è dato sapere perché la sola luce che illumina la scena, e la pelle candida e rosea nei rispettivi settori di competenza, viene dal basso, a sinistra, e non da lì, e quindi si è indotti a supporre che la testa si piega in alto e gli occhi si spalancano non per qualche splendore divino, come per esempio nel Festino di Baldassarre di Rembrandt, ma per una diversa libidine, immateriale, santa, o perché raggiunta da una voce, proiettata fuori ma magari interna, antecedente il crollo della mente bicamerale, appannaggio a quei tempi dei profeti biblici e altri personaggi consimili, cosa che però non spiegherebbe la postura della serva, a meno di non attribuire anche a lei questa facoltà, ovvero quella sublime corrispondenza del sentire che a volte lega le serve, soprattutto le nutrici, alle loro padrone, non contente di averle nutrite e di servirle fino alla fine dei loro giorni, in pace e in guerra, negli agi e nei pericoli.
 
 

27/05/14

Un rapinatore solitario




Per un po’ si era adattato all’infelicità standard: si era sposato e aveva trovato un lavoro regolare. Faceva l'idraulico; in proprio: non sopportava che un altro gli dicesse cosa fare, come e quando. Al massimo, credo, la moglie. Per un po'. Lo rassicurava, sembra. Aveva una casa, guadagnava discretamente, beveva di meno e si era lasciato crescere un po' di barba. Ma poi, all'improvviso, se n'era andato, e era tornato a fare le stupidaggini di sempre. Sporadiche, non premeditate, come l'esito scontato di un'agitazione fisiologica.
Rubava solo soldi: roba spendibile direttamente, subito e senza intermediari. Non si sa nemmeno se toglieva la sicura alla pistola, o se ce l'aveva, la pistola, nel rigonfio in tasca. Gli era  venuto l’estro del rapinatore solitario. Non per l’aura romantica: non ci arrivava; più in là di fare subito quel che gli passava per la testa, e da solo, proprio non era capace di pensare.
A volte fuggiva a piedi, o in bici, se ne trovava una all’uscita dell’ufficio postale o della filiale di banca di periferia, bici che abbandonava quasi subito, per poi incamminarsi tra la gente come se niente fosse. Allora non c'erano telecamere a circuito chiuso, o le avevano solo nei luoghi importanti, dove girava il denaro vero. Lui restava nei paraggi e si allontanava solo più tardi, quando le ricerche si erano spostate altrove. Un paio di volte però lo hanno riconosciuto che si beveva tranquillo un grappino in un bar di una via laterale. Non la polizia: qualche cliente che aveva assistito alla rapina.
L'ultima volta che lo hanno preso, prima che lo ammanettassero ha chiesto gentilmente se poteva finire il cicchetto. Non so se l'hanno accontentato. Io gli avrei pure fatto compagnia.

22/05/14

"Bambina accanto al seggiolone" di Govert Flink e, di passaggio, altri bambini






e c'era questo ritratto di Bambina accanto al seggiolone di Govert Flink, del 1640, che senza andare a pescare tra i Bambin Gesù o Giovannini vari, e nemmeno tra i Bronzino e i Velasquez o altri bambini olandesi da soli o in quadri di famiglia come quello di Pieter Fransz de Grebber di Lisbona di cui ho già parlato, o anche da soli, come certi Franz Hals o Judith Leyster, mi ha ricordato, oltre al magnifico Ritratto di una bambina della famiglia Redetti (1566-70 ca) di G.B. Moroni dell'Accademia Carrara di Bergamo con un'associazione del tutto personale e non fondata su parentele iconografiche di rilievo, se non per opposizione per quanto può essere bella, e infantile, non signorina né vecchina, una bambina anche in gran tenuta con abitino di broccato, gorgiera e maniche candide di seta o mussola, ma i capelli liberi, con sopra un nastro e un gioiellino delicato che riprende sia gli orecchini e la collana di perle che il discreto braccialettino di corallo al polso destro, mi ha ricordato, dicevo, il Bambino giacente nella culla (158) di Lavinia Fontana che mi aveva colpito anni fa alla Pinacoteca di Bologna, chiuso nelle fasce come tanti bambini di quando ero piccolo anch'io e forse, per un po', io stesso, rigido come un morto (come il Lazzaro stretto nelle sue bende funebri di Giotto agli Scrovegni) con quegli occhi spalancati in quella che sembra meno una culla che un catafalco, e quell'altro bimbo, sveglio e dalle guanciotte rubizze, nella bellissima Merlettaia di Nicolas Maes (1656-7), al Metropolitan, saldamente in piedi nel gabbiotto del seggiolone, con quella splendida ciotola smaltata di bianco e il cucchiaio per la pappa e un bicchiere rovesciato a terra sull'impiantito di assi, che tiene in mano un oggetto che assomiglia al sonaglio appeso al collo della bambina di Flink, che la lunga veste bianca sembra invece far levitare sopra il pavimento in piastrelle grigie lustrissimo (con quella mania dell'ordine e della pulizia che tanto colpiva i visitatori stranieri dell'Olanda del tempo, specie i Francesi che quanto a igiene e pulizia della persona e degli ambienti lasciavano parecchio a desiderare - come, sia detto en passant, certi alberghetti a Parigi dove soggiornavo quando ero giovane che, se avevano il vantaggio di essere in centro e costare poco, non avrebbero però superato una visita dell'Asl manco se fossero stati dei canili municipali), racchiusa negli strati dell'abitino con la sua giacchetta e mantellina come in un morbido scafandro, inclusa quella cuffia da beghina che nemmeno la ghirlanda di fiori riesce a ingentilire, e bardata, come certe Marie Bambine nelle processioni paesane, di collane e braccialetti d'oro, come dorati sono il lungo nastro a cui è appeso il sonaglio (d'ottone?)  e il tessuto della borsetta da sera che tiene al braccio destro, mentre l'altro si appoggia al seggiolone aperto che sembra una scultura con baldacchino, sul cui piano ci sono dei dolcetti di zucchero a sottolineare, non bastasse il resto, la ricchezza e la cura e l'affetto di cui viene fatta oggetto, póra s'ciàta, monumentalizzata dalla postura e dallo sfondo scuro da cui emergono, come apparizioni di incerti fantasmi, tracce biancastre, ectoplasmi forse di abiti o tende o chissà che, tanto che lei stessa appare, a un primo sguardo, una vecchina presaga della morte, tristissima, mentre invece, a uno sguardo più ravvicinato dopo essersi fatti strada tra la ressa, il suo volto da bambina risalta in tutta la sua vivezza, con le guance lei pure rubizze, anche troppo, quasi un sospetto di malattia polmonare, o viceversa un indicatore di buonissima salute, gli occhi grandi, spalancati, forse un po' intimiditi, o con un velo di stanchezza per la postura e l'immobilità a cui almeno per un po' sarà stata costretta, ma vivace, dolce, da far tenerezza anche a un cuore  prosaico, smagato come il mio.