15/02/14

Corpo recalcitrante, due zanzare, un gatto, una lumaca, un'anatra e grace over me





Stamattina non cammino: sposto il corpo, lo trascino. Gli arti sono rigidi, pesanti; i movimenti, meccanici; le spalle si curvano in avanti schiacciando il torace contro il plesso solare; la terra trattiene i piedi un istante di troppo prima di concedergli di sollevarsi, e poi li richiama subito all’ordine gravitazionale; gli occhi sono velati da una sottile patina granulosa; anche i pensieri respirano a fatica. Il cielo è sereno, l’aria pulita: più tardi verrà l’afa, ma ora, qui in riva al fiume, si sta bene. L’acqua scorre silenziosa, le foglie sono ferme, i canti degli uccelli risuonano nitidi ma come in uno spazio separato, e i miei passi non producono suono. Due pescatori mi vengono incontro gesticolando muti, ma non al rallentatore. Un gatto cammina con eccessiva prudenza, o solo compassato, come d’uso, nell’erba alta; gira lentamente la testa a guardarmi, ma se ne va senza nemmeno mettermi a fuoco. Non sono abbastanza pericoloso. Non posso dargli torto.
Ogni tanto, in lontananza, oltre il fiume i canali il bosco e il paese, verso l’orizzonte che gli alberi mi nascondono, ma un po’ più in alto, nel cielo appena sopra, a salire, sotto le nubi però, se ci fossero, sento dei tonfi, di quinte o muri che crollano, di soffitti sfondati, e poi rumori cupi ma striati da lunghe note acute, come di pesi che vengono spostati su un terreno accidentato, cassoni o mobili enormi. Impegnato a governare la carne recalcitrante con comandi che restano invischiati in remote circonvoluzioni, accasciati contro il muro del labirinto senza tradursi neppure nel semplice impulso a agire, li registro solo dopo un lungo intervallo. Non li riconosco, non trovo definizioni, non mi vengono in mente scenari plausibili o soddisfacenti almeno per l’immaginazione, ma di rimbalzo cominciano a formarsi le parole per ciò che mi sta attorno: aria, cielo, foglie, uccelli. Risuonano nella testa che ancora ondeggia, ripetendosi come un nastro in loop, ma acquistando qualche fonema e poi sillaba e poi radice e desinenza ad ogni giro, che poi si mescolano e sovrappongono e provano a districarsi alla ricerca di un qualche ordine, che però non trovano. Né il mio passo ci guadagna. Sembra che diventi più veloce, mentre è solo il sangue che scorre un po’ meglio, senza altri effetti, al momento. La mia, di velocità, continua a essere inferiore alle medie solite, almeno del 10-15% a giudicare dal tempo che ho impiegato nel tratto sinora percorso. Può essere che non il tempo, ma lo spazio sia elastico: il dubbio mi è già venuto in passato, quando tenevo un’andatura identica alla norma e il tempo di percorrenza di certi tratti lo cronometravo, sia pure di pochissimo, chiaramente maggiore. Oggi però la dilatazione dello spazio sarebbe eccessiva. Sono io che non vado. Intanto le parole continuano a agglutinarsi in piccoli insiemi e a ripetersi, martellando in testa un ritmo che il corpo invece non sa tenere. Devo fermarmi a prendere un appunto, se no il martellamento non cessa. Può darsi che dopo anche il passo sarà più sostenuto. Che la testa alleggerita alleggerisca il corpo.

Ma è un piccolo calvario: prima di trovare un posto dove potermi fermare a scrivere con un certo agio devo percorrere altri 3 kilometri. Tutte le panchine sono alle mie spalle, i muretti si sono appianati e per terra non mi siedo: ho i bermuda molto chiari. Nuovi. Finalmente arrivo alla cappella con le panche in pietra ai lati della porta. Appena mi accomodo, mentre estraggo il quadernetto dalla tasca posteriore, una zanzara tigre si posa sulla mia coscia sinistra, forse attratta dal candore della stoffa. La schiaccio senza pietà, a rischio di macchiare i bermuda di sangue. Non succede: non si era ancora nutrita evidentemente. O forse era un maschio. Ho qualche problema con l’identità sessuale degli altri, a volte. Degli altri animali. Scrivo tenendo d’occhio le gambe; ogni filo d’erba che mi sfiora i polpacci mi sembra una minaccia, ma vado avanti.  


Arrivato a questo punto, proprio qui, poggio il quadernetto sul piano del sedile per fotografarlo come faccio con quasi tutti i luoghi dove prendo appunti, e vedo sul suo spessore una lumaca che si muove lenta, in verticale. Senza sforzo però: col suo passo.
Scattata la foto scrivo queste ultime righe e mi distraggo: un’altra zanzara tigre ne approfitta per posarsi sulla vena appena sopra la caviglia destra. La spiaccico sporcandomi il dito di sangue. Non so se è mio o di qualcun altro. Fatto sta che poi non c’è gonfiore. Guardo la macchia di sangue per pulirla e dentro, intrappolate, vedo due frammenti della zanzara. Forse le zampette. Prima di notarle non mi dispiaceva di averla schiacciata. Ora che le ho notate e lo sto scrivendo, un po’ sì. Ma poi no. No.


(Quando mi alzo, finito di scrivere, il passo è più spedito, quasi arzillo.)
(Accendo la musica sul cellulare. La prime parole che decifro sono “by the saving grace / that’s over me”.)

 (Dopo qualche minuto, quando, sbucando dai cespugli che costeggiano la strada, imbocco a passo spedito il ponticello dell’Adda vecchia, un’anatra in discesa verso il canneto mi plana pochi centimetri sopra la testa. La vedo dopo. Prima sento solo lo spostamento d’aria, la sua carezza incorporea, i capelli che vibrano.)

Nessun commento:

Posta un commento