18/01/14

Rubare il mestiere


 a Mimma e Raffaele (e a mia sorella Manuela)

Sul ponte incontro Raffaele e Mimma, stanno guardando il popolo delle anatre che negli ultimi anni ha colonizzato i corsi d'acqua del paese, fiume canali e persino rogge. Ci sono anche germani reali, e poi cigni, gallinelle, gabbiani, aironi e, mi pare, cormorani. A proposito dei germani reali, Raffaele mi racconta di un tale che usava le piume verde smeraldo della loro testa per confezionare esche. Si chiamava Aldo Vanghett, detto così perché la forma del suo viso, con il mento squadrato e sporgente, gli zigomi spigolosi e la fronte alta e lucida, evocava quel nobile strumento. La cultura contadina! Era un ex-cacciatore che non ce la faceva più, né lui né il suo vecchio cane sbilenco e spelacchiato, a percorrere con il fucile in spalla la campagna ormai spopolata di selvaggina, e così si era dedicato completamente all'altra sua passione, la pesca. Sempre meno con gli anni, però, perché l'umidità, il freddo e l'artrite non vanno d'accordo. Quando non pescava, andava in giro con il suo cane, e, in difetto di altri interlocutori, faceva lunghi discorsi con lui, che lo stava ad ascoltare paziente e gli dava sempre le risposte giuste girandogli attorno e leccandolo. L'amore è sempre la risposta giusta. Quando incontrava i suoi ex-colleghi cacciatori, chiedeva se avevano ucciso un germano (che poi non so se è legale), e se potevano dargli le piume della testa.
A volte si fermava un po' a guardare pescare gli altri, e in certi casi si azzardava persino a attaccare bottone. È così che ha conosciuto Raffaele. Un giorno gli racconta del suo metodo per confezionare le esche e gli magnifica la loro efficacia. Peccato che non ha figli né altri a cui tramandare quella piccola sapienza e altri trucchetti che ha escogitato negli anni. Allora Raffaele gli dice che può insegnarlo a lui. 
 
Faceva così: tagliava le piccole piume a metà, poi le piegava in differenti angolazioni e addobbava l'amo fissandole in un modo tutto suo, bello e efficace. Il suo modo di essere creativo. Forse uno dei tanti, che si manifestavano in altre piccole attività e accorgimenti come questo. Cose a cui nessuno faceva caso, ma lui sì. E questo è bello. Magari per il resto era men che mediocre, non so; penso di no, ma forse lo era; però in questo di sicuro no. È bello far bene le cose.
Certo ora i negozi sportivi sono pieni di esche preconfezionate di ogni tipo e materiale, e su internet ci sono mille siti dove puoi imparare tutti i segreti e le procedure per ogni occorrenza e ambiente e preda. Ciononostante Raffaele è andato da Aldo un paio di volte, l'ha ascoltato e ha imparato le sue tecniche, che ha aggiunto a quelle che conosceva già, e si è messo a confezionare le esche da solo. O assieme a Mimma, nei pomeriggi di domeniche inclementi, o la sera, in cucina, mentre Federica e Ilaria, che di apprendere quell'arte non si sognavano nemmeno (d'altronde si sono mai viste donne pescatrici?, nel senso letterale del termine almeno), studiavano in stanza o in salotto, o erano uscite, ciascuna rigorosamente per suo conto, con i rispettivi amici. Mi piace immaginarli così, silenziosi, attenti a non pungersi con gli ami, o scambiandosi qualche parola ogni tanto. Troppe non servono. E anche questo è bello e buono.
Nel parlare, siamo arrivati all'Adda vecchia, praticamente un canneto paludoso ora (splendido però), e Raffaele mi ha mostrato dei pesci fermi sotto il pelo dell'acqua, che si vedevano solo a guardare nel modo giusto e se già sapevi che erano lì. Gli ho chiesto che pesci erano, e poi, già che c'ero, delle specie che ci sono nell'Adda, di quelle che c'erano in passato e di quelle che sono rimaste ora o che, al pari di molti degli uccelli succitati, sono arrivate da fuori (succede anche questo, e non sempre è un bene, pare, perché alcune, molto voraci, alterano l'equilibrio: certo, dico io, ma se ne creerà un altro; e contro i predatori si può intervenire, ammesso che non si calmierino da soli), e come distinguerle. Lui, paziente, mi ha dato molte informazioni, che io però ho dimenticato quasi del tutto, perché per imparare devo avere gli oggetti davanti. Neanche le illustrazioni mi aiutano. Succede così anche con gli alberi (per gli alberi il mio consulente principale è Federico De Leonardis, che peraltro fa lo scultore).
Ascoltando questa storia, mi è venuto da pensare alle forme di trasmissione del sapere, roba grossa, non alla mia portata, e che quindi è immediatamente evaporata, lasciando il posto a qualcosa di personale; e mi è tornato in mente mio papà, che negli ultimi anni si lamentava che i giovani della sua ditta non stavano a ascoltare quando gli insegnava come lavorare e tanto meno avevano voglia di "rubare il mestiere", come aveva fatto lui da ragazzo, durante la guerra, osservando di nascosto gli operai specializzati più abili e gelosi dei loro segreti, quando lavorava dal mitico Piacezzi, nella cui fabbrica si è formata la generazione di quelli che sarebbero diventati gli artigiani e i piccoli imprenditori che hanno fatto la fortuna di Fara (e la propria; e la mia) negli anni '50 e '60.
A me questo ritornello non diceva molto, tanto più che lo sviluppo della tecnologia aveva reso obsolete simili astuzie. Eppure fino agli ultimi tempi mio papà, che non aveva fatto neanche le scuole medie, ma solo quelle che allora si chiamavano l'avviamento (professionale) e poi una scuola serale di disegno tecnico (ma non sono sicuro e purtroppo non ho più nessuno a cui chiedere conferma), non ha smesso di inventare qualche accorgimento per migliorare anche i macchinari più avanzati. La sera, o durante i weekend, si metteva al tavolo in sala, con squadra, righello, goniometro e la sua batteria di grossi blocnotes a quadretti, e disegnava. Me li aveva fatti portare, di nascosto dalla mamma e dai dottori, persino in clinica, tre o quattro giorni dopo l'operazione al cuore in seguito alla quale poi gli si sono bruciati i polmoni (ma lui ha poi accelerato il processo, tornando a lavorare finché non ha dovuto usare le bombolette portatili con la cannuccia per respirare, e oltre), e passava i giorni e le ore così, senza pensare a nient'altro.
Mi ricordo quando, con l'intento di insegnarmi, di passarmi pian piano il mestiere (a cui dovevano introdurmi anche le scatole di meccano sempre più complesse che per anni sono state la costante dei regali di Natale), mi portava alla fiera campionaria o a quella delle macchine industriali. Passava tutta la giornata nei loro padiglioni, mentre io volevo andare in tutti meno che in quelli ma non mi azzardavo a dirglielo (ma poi un giro me lo concedeva sempre), a osservare ogni dettaglio, chiedere depliant sui quali scarabocchiava appunti per poi studiarseli ben bene a casa, a fermarsi a parlare con gli espositori di ogni nazione, facendosi capire anche quando non parlavano l'italiano o non c'era un interprete. In particolare ricordo la volta che ha visto un macchinario della Germania dell'Est che era ciò che più si avvicinava a come doveva essere per lui la macchina perfetta: ha fatto finta di niente, si è avvicinato, gli ha girato lentamente attorno, in silenzio, come un medico scrupoloso al capezzale di un moribondo, ha messo la testa in tutti gli angoli, controllando materiali, motore e tutte le componenti e ha salutato con aria moderatamente soddisfatta, ma con una sfumatura scettica, lasciando intendere che forse, ma proprio forse, e se gli venivano incontro, come se fosse dipeso dai rappresentanti, era interessato. Al ritorno ha ripassato tutte le caratteristiche, una per una, ha calcolato costi e tempi di ammortamento, ipotizzato ogni possibile uso o miglioria per adattarla alla sua produzione del momento e per acquisire nuovi ordini per particolari (di trattori) che pensava di soffiare ai concorrenti, e il giorno prima della chiusura è tornato ad acquistarlo. Un bestione come non se n'era mai visto in officina (l'abbiamo sempre chiamata così, anche quando è diventata una fabbrica di discrete proporzioni) e che è rimasto ancorato al suolo, stagliato come un mastio nella valle, per più di vent'anni.
 

Voleva sempre insegnarmi, mio papà, anche quando non pareva, quanto lui non si stancava di apprendere. Con poche parole e gesti bruschi, ma non duri. Solo, a volte, impazienti. E io non ascoltavo; oppure ascoltavo distrattamente e mi volgevo altrove. Non volevo quello che voleva lui, pur non sapendo cosa volevo io. E siccome non lo sapevo io, pensava di potermelo dire lui. Non ha funzionato. Se qualcosa, con il tempo e senza accorgermene, ho imparato, è stato, ma solo in parte, a volere come voleva lui. Non l'ho preso alla lettera, ma forse alla lunga ho compreso la lettera, ne ho assimilato il senso.
Io non sono mai stato capace di rubare il mestiere. Del resto non ne ho mai avuto uno. Ma quando vedo qualcuno fare bene una cosa che ignoro, ora lo sto sempre a guardare. Se non disturbo troppo, faccio pure qualche domanda, mi informo su materiali e strumenti e tecniche e ragioni. Imparo poco o niente, ma intanto guardo, ora, e chiedo. Restano alcuni gesti, delle posture, parole. Sarà poco, ma me ne vado sempre contento.

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