27/01/14

Risate monosillabiche. (Ovvero: pianure e paure) (Ovvero ovvero: pensieri e tristezze)




Il mio amico Gildo è uno che quando riflette non scherza. E siccome riflette tutto il giorno, la sua compagnia non è delle più allegre. Interessante, quasi sempre; spesso stimolante, quando si degna ... no, quando si degna no, non è giusto: quando si decide a farti partecipe dei suoi pensieri... quando la parola è matura, appena prima che il silenzio cominci a marcire; allegra quasi mai.
Non che lui sia triste (cioè: la sua parte; che uno non sia mai triste è difficile crederlo): è che riflette. E questo lo porta a ridere poco. Solo di recente ho scoperto il nesso. Ogni tanto infatti ride pure, come folgorato dall'improvvisa emergenza del lato assurdo di qualcosa, e forse di ogni cosa, o dal lato assurdo, dài non esageriamo... incongruo... sfasato... dal punto in cui niente coincide esattamente con i propri margini, e un po' qualcosa esce, deborda, con un flòp molliccio, per spiaccicarsi chissà dove, e un altro po' ci balla dentro, come in vestiti di qualche taglia in più; e lui, colpito da questo fulmine, o quasi che il fulmine uscisse dalla sua testa, emette un tuono forte e secco, istantaneo. Una risata che nasce e muore lì, ma fa tremare le pareti. Una risata monosillabica. Subito ghigliottinata.
Non è che pensa triste: pensa serio, e sul serio. Lo ammiro per questo. Come ammiro tutti coloro che fanno qualcosa di cui non sono capace. Dicevo che il motivo di questa serietà l'ho scoperto solo qualche giorno fa. Una mattina, appena lo incontro, con l'unica cosa di cui vado veramente orgoglioso: il mio eterno candore, gli dico: "Sai Gildo, oggi ho visto per la prima volta un oleandro in un angolo da cui passo sempre. Bellissimo tra l'altro, con le foglie verde scuro e un tripudio di fiori bordeaux, così carico da virare al blu. Gli passo sempre accanto, guardo la porta dell'Istituto di suore oltre l'inferriata e il giardinetto striminzito, leggo la targa sul pilastro, ma l'oleandro non lo noto... Per uno come me che vuole sempre vedere tutto, è un colpo! Eppure è così: a tenere sempre gli occhi sgranati, l'attenzione sempre sul chivalà... a volere che niente, ma proprio niente sfugga, si finisce sempre per perdere qualcosa. Sai che scoperta... L'attenzione si fissa su qualche dettaglio e nella testa e negli occhi resta solo quello, e anche se a te sembra di non avere trascurato nulla, l'insieme sfuma e con esso mille altre cose, significative o meno non si sa. In compenso lo si scopre dopo, a puntate magari. E la sorpresa compensa lo smacco. L'altrieri, per esempio, è stata una finestra con una pianta esotica. Fiorita e colorata, nella facciata grigia."
Cioè, non è che metto in fila tutta 'sta tirata parola per parola, ma il senso è questo. Poi vado al mio tavolo, accendo il pc e dispongo carte e libri in funzione del loro ipotetico uso imminente. E cerco di riflettere. Penso a quello che ho detto, ancora appeso alla sua bava che si va assottigliando. Sorrido tra me e me. Di compassione, non di compiacimento. E' allora che sento Gildo che dal suo tavolo, oltre la porta, mi fa: "Una frase come 'io che voglio sempre vedere tutto', a me non verrebbe mai da dirla. Che tu ci creda o no, io non penso mai a me stesso. Io penso alle cose. Tu invece sei sempre lì a pensare a te stesso, a ogni parola che dici o scrivi, a ogni cosa che fai, ed è questo che ti ha sempre frenato."
Io non gli credo, non del tutto almeno, ma fingo di sì. Perché quanto a me ha solo ragione, e io gliela concedo volentieri. Entrambi abbiamo usato il famigerato pronome mica poco, però. Tralascio il breve dialogo successivo. Parenetico. Nei miei confronti, certo. Poi dalla porta non arriva più nessuna parola. Io mi rigiro negli alibi, cerco compensazioni; Gildo ha ripreso a riflettere. Lo faccio anch'io stavolta, sull'abbrivio. E penso a lui. (A lui per pensare ancora a me, ovvio.) E sì: lui pensa alle cose, alle loro implicazioni, ma soprattutto alle loro possibili relazioni. E' bravissimo in questo. Davvero molto creativo. Io penso, se il verbo non è eccessivo, dentro. Lui pensa fuori. Io rifletto quel che sono, più o meno niente (per questo rido spesso); lui quello che c'è: il mondo.
E stavolta non mi viene da ridere. Ma proprio per niente.

E' che se uno pensa il mondo ha ben poco da ridere (oppure ride quasi sempre); invece se uno ride troppo spesso, non pensa. O pensa poco. D'altronde, se ride, chi glielo fa fare di pensare? Sta già bene così. A meno che ridere non sia un modo di pensare; una forma peculiare del pensiero, oltre che il suo effetto. Qualcuno mi pare che lo ha sostenuto. Ma mentre lo sosteneva non rideva: pensava. (Ho visto le sue foto, tra parentesi: sembra uno che non ha riso mai.)

Torniamo a Gildo va'... Quando riflette, dicevo, mica scherza; non solo, ma, concentrato com'è, non guarda mai in faccia: sempre oltre, dietro, a lato, in alto. Appena appena, che se uno non fa attenzione, non se ne accorge. Oppure non guarda affatto. Non lo fa apposta. Gildo. Ha questo strano sguardo di chi pensa alle cose ma segue i suoi pensieri, senza saperlo: cioè senza sapere che, per seguirli, li sta guardando. Li segue credendo di seguire le tracce delle cose, e invece è ai pensieri, alla loro rete, che la sua riflessione è presa. Beh, mi sembra normale: se uno pensa, segue i pensieri. I suoi. Che però, in questo caso, non riguardano lui. Cioè, non è che li segue perché sono suoi; li segue perché questo, a parere di molti, è pensare: seguire i pensieri disinteressandosi a chi li pensa. Che potrebbe anche essere un altro; chiunque, anzi, secondo certe antiche dottrine; e quindi nessuno in particolare: un pensiero senza pensatore; come se fosse assoluto; di Dio. Senza pensatore, appunto.
Che, tradotto in altri termini, porterebbe a concludere: chiunque pensa senza pensarsi, crede di essere Dio. Magari senza saperlo. Non è che Dio passa il tempo a pensarsi; a dirsi: eh eh, sono Dio, io! Dio si comporta come Dio, e questo è tutto; come uno, cioè, che quando pensa, - e pensa sempre, ovvio -, pensa sul serio, mica scherza lui!, e allora ha pensieri assoluti. Che sarebbero, secondo alcuni, il mondo. Dio pensa le cose, il mondo: pensa fuori. Cioè: ammesso che il mondo, le cose, siano fuori. Fuori di Dio. (Fuori della grazia di Dio!, come diceva di essere mia mamma quando la facevo arrabbiare; che è un paradosso: perché se c'era una che non è mai uscita dalla grazia di Dio, e che anzi se Dio esiste e quindi esiste anche la sua Grazia, ebbene: mia mamma era questa Grazia.) E che non siano invece (le cose, il mondo) Dio, nel nostro pensare il suo essere fuori. Fuori di noi che, riflettendo, non possiamo non pensare, allo stesso tempo, a noi che pensiamo. Dentro. Anche se a volte non ci facciamo bada. O lo giudichiamo irrilevante, non pertinente, e che quindi possiamo fare come se, per noi, non esistesse. Mentre invece c'è eccome! Secondo me. E allora è meglio guardarlo in faccia.

Gildo invece, dicevo, quando riflette in faccia non guarda. A niente e nessuno. Mi sono dato una spiegazione, in merito (un'altra!), a parte l'ipotesi metafisica appena abbozzata che peraltro non mi sembra così peregrina (senza contare che, quando si tira in ballo Dio, il livello del discorso si alza di botto; e anche l'audience si impenna, poco ma sicuro!); è che deve aver visto, Gildo, qualcosa prima (deve sempre aver visto qualcosa prima) e si è fissato su quella. Come se la gente non gli interessasse; che è una deduzione falsa e maligna da cui mi dissocio a priori. La gente la osserva eccome!, anche se le facce, spesso, poi le guarda solo in foto. Perché lì può farlo bene, è ovvio. Con cura e senza urtare nessuno: senza che nessuno si atteggi solo per il fatto che sa di essere guardato e ci riflette sopra. Riflette a come darsi a vedere. Che è certo interessante, ma meno di quello che dà a vedere quando non sa di essere visto, o quando crede di poter determinare il modo in cui essere visto perché sa di avere davanti il fotografo e allora si illude di raggirarlo, mentre invece è sempre il fotografo, o se non lui la fotografia, a averla vinta. Una cosa simile, mi pare, alla riflessione che crede di darsi a vedere senza il proprio vedersi. E' un'ipotesi. Va presa com'è. Come tutto.

Ma poi mi dico che son tutte scuse, sofismi. Se uno si pensa, si mette al centro: mette al centro i propri bisogni, il proprio piccolo, miserabile, ridicolo io. Le sue storielle del cazzo. Con tutto il mondo che c'è oltre il naso! Le miserie! I problemi! Possibile che io sia così fatuo? così meschino? Che mi interessi a me solo per narcisismo? per un megaegoismo duro e puro come un cristallo di rocca (stavo per dire diamante...)? Eppure mi sembra che, attraverso ciò che mi colpisce e mi importa, notandolo e pensandoci su, magari esce qualcosa che può interessare anche altri, che può essere importante non solo per me. E non mi riferisco alle cose banalissime da cui sarò partito, ma ai meccanismi, alle implicazioni e sovradeterminazioni ecc. che, indagandole io nelle modalità forme e intensità con cui avranno colpito me, potranno trasferirsi, o significare o dare a vedere o acquisire un qualche interesse anche per altri. Senza scomodare Montaigne; limitandomi a vagare per le mie pianure e paure. Nelle mie depressioni.
Per fare questo però, è ovvio, devo frapporre qualcosa (un intervallo, un filtro, una distanza, un'interruzione, una mediazione) tra me e ciò che mi ha colpito, e con ciò che sto sentendo e pensando. (Tutte cose a cui devo in qualche modo pensare, e che quindi già non sono più io...) E questo mi porta a vedere molto spesso la sfasatura, l'incongruenza o il vestito troppo largo di cui parlavo prima, che è poi uno dei principali motivi per cui rido spesso anch'io, e per cui non posso ridere se non ridendo, insieme, e quasi sempre (sempre no, per fortuna), di me. Della mia sfasatura e incongruenza e dei miei abiti, mentali e materiali.
Gildo non ride di sé; e perché mai dovrebbe farlo, con tutto quello che ha da guardare, pensare e fare? L'aspetto più curioso della faccenda, è che io passo per altruista e lui per egoista. Che è una grandissima e volgare menzogna. E io lo so bene, per primo. E' generoso. Si spende, e io gli voglio bene anche per questo. (Però un po' altruista lo sono anch'io, dai! Generoso... Buono. Ci tengo.) 

 non c'entra niente, ma non è bellissima?
(e allora c'entra)

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